"In verità Allah non modifica il destino di un popolo finché esso non muta nel suo intimo"
Corano, sura XIII - Ar'rad (Il Tuono)
Durante il discorso di Ahmadinejad all’ONU ho provato una terribile invidia per gli iraniani. E non perché siano iraniani o perché la loro società e la loro cultura mi sembrino preferibili alla mia. Conosco troppo poco il loro paese per poter dire se si viva meglio qui o da loro. Di una cosa, però, adesso sono sicuro: loro sono un paese. E questo è molto di più di quanto si possa dire di qualsiasi entità politico-territoriale esistente in Europa. L’Iran è uno stato nazionale che può esercitare ed esercita, nel bene e nel male, tutte le prerogative della propria sovranità. Possiede una cultura autoctona, di cui va fiero. Talmente fiero che non ha neppure bisogno di spiegarla al resto del mondo. Nel corso della perdurante campagna di criminalizzazione della Repubblica Islamica, l’occidente ha raccontato sugli usi e i costumi dell’Iran tali e tante frottole che non basterebbe un saggio per elencarle tutte. Solo sul caso Sakineh sono state dette tante assurdità da riempire un capitolo di una quarantina di pagine. Si è parlato di lapidazioni, che in Iran non esistono più dal 2002, senza dire che il periodo d’oro delle lapidazioni in Iran è stato quello dello Scià,
cioè il periodo in cui in Iran comandavano gli americani. Si è parlato di processi per adulterio, che in Iran sono, di fatto,inesistenti. Si è blaterato a vanvera sulla condizione della donna nel matrimonio, senza dire che nell’Iran sciita il divorzio esiste da 1400 anni, cioè da quando esiste l’Islam. E no, il diritto di chiedere la separazione non spetta affatto soltanto al marito, come hanno farneticato i nostri organi di stampa. In Iran divorzia, in media, una coppia su sette. A Teheran, la media è di una su quattro. Di fronte a tutte queste menzogne, le autorità iraniane sono intervenute con smentite puramente sporadiche, mostrandosi – giustamente – più divertite che indignate dall’immagine puerile che i media occidentali forniscono sul loro paese. La loro cultura e i loro costumi sono solidi, condivisi e contribuiscono a dare un senso profondo al vivere sociale. Non hanno il minimo bisogno dell’apprezzamento estero e se all’occidente certi aspetti della cultura sciita non piacciono, i problemi sono tutti nostri. E pure grossi.Si ha la netta impressione che nel delirante starnazzare dei media nostrani, oltre al consueto servilismo verso i dominanti statunitensi, vi sia una robusta componente d’invidia. L’Iran è oggi ciò che gli stati europei erano fino a 65 anni fa e hanno poi cessato di essere dopo la conquista da parte degli americani: una nazione con una forte identità nazionale, che si manifesta nelle leggi, nella politica interna ed estera, nella produzione letteraria, nella musica, nel cinema, nella religione. Potremmo semplicemente dire: l’Iran è una nazione. Punto. E “nazione” è un concetto di cui a noi è rimasta soltanto una vaga e dolorosa reminiscenza. E’ per questo che l’Iran ci fa rabbia, spingendoci, non di rado, a strepitare bugie e stupidaggini come galline impazzite. Ci fa rabbia la sua coesione culturale e nazionale, che neppure le “rivoluzioni colorate” organizzate in grande stile dai suoi nemici riescono a scalfire. Ci rammenta di quando anche noi avevamo una nostra letteratura, un nostro cinema, una nostra identità nazionale. Ci fa pensare a quando e a come abbiamo perduto tutto questo, il che è molto pericoloso per chi ce ne ha privato. La memoria è sempre pericolosa per chi fonda il proprio potere sull’oblio, come Orwell ci aveva ben insegnato. E’ importante che si dimentichi anche lui. Gli strepiti sguaiati dei media servono anche a questo: a non farci riflettere troppo. Se riflettessimo, potremmo renderci conto che abbiamo gettato alle ortiche una cultura millenaria per sostituirla con quella imposta con la violenza delle armi e del sopruso dallo straniero occupante.
Il quale straniero, un tempo, era almeno portatore di una cultura di alto livello. Ora che la sua stella declina, anche la sua cultura si decompone, riducendosi alle proprie molecole costitutive senza più un principio di coesione che le elargisca il soffio della vita. Le sparatorie, il sangue, gli omicidi, la suggestione delle immagini, la retorica nazionalista, sono ancora presenti nella letteratura e nel cinema che il padrone fabbrica per tenerci distratti. Ma non possiedono più quella valenza di significato, quella progettazione identitaria, quella ricchezza di prospettive sul futuro che servivano a dare un senso almeno alla nostra servitù, se non alla speranza di una liberazione. Sono solo immagini e parole vuote, ripetute ipnoticamente, di cortissimo respiro; l’equivalente di un calmante che serva a tenerci buoni e a farci dimenticare il dolore per questa sera, nell’attesa che si scopra un nuovo e più efficace sistema di riferimenti esistenziali che il padrone, impegnato com’è a risolvere i propri guai, non ha più il tempo né la voglia di ricercare per noi. Viviamo e dormiamo senza più sapere perché e i nostri sonni sono agitati dalla consapevolezza che i sogni e gli incubi che vengono a visitarci in questo dormiveglia irrequieto non sono più neanche nostri. Ci fanno rabbia le nazioni come l’Iran, che hanno conservato non solo la capacità di sognare i propri sogni, anziché quelli altrui, ma anche l’indipendenza necessaria per poterli un giorno rendere concreti. Vorremmo che almeno non ci privassero del nostro sedativo, che non spezzassero le fantasie analgesiche del nostro dormiveglia.
Ci infuriamo, pertanto, quando l’Iran, nella persona del suo presidente, ci ricorda in continuazione che i miti fondanti della nostra servitù sono solo fantasie che altri hanno edificato per noi. Non sopportiamo, ad esempio, di sentirgli ripetere che l’olocausto è una colossale menzogna, perché dentro di noi sappiamo bene che è così e ci sentiamo umiliati dall’inganno, dalla credulità con cui ci siamo caduti, dall’impotenza lamentevole a cui ci ha condotto. Schiumiamo di inutile furia quando le favole del terrorismo, dell’11 settembre, della democrazia putrefatta e marcescente a cui ci hanno incatenati vengono smontate sotto i nostri occhi di sguatteri sonnolenti e tremanti.
L’Iran è una nazione che può permettersi di abbandonare la sala conferenze del palazzo dell’ONU quando lo ritiene opportuno, non quando lo ordina il padrone.
L’Iran può permettersi, per bocca del suo presidente, di demolire con un sogghigno le fanfaluche del decano dei giornalisti americani, ricordandogli che l’occidente non è mai stato “il mondo”, come ama definirsi nei momenti di esaltazione lisergica, ma solo una piccola componente di esso. Una componente che ha irrimediabilmente perduto la supremazia militare e culturale che le consentiva di imporre agli altri popoli la propria definizione di “civiltà”.
L’Iran può permettersi di sghignazzare, gioiosamente ed a lungo, sulle accuse di “sessismo” con cui le donnette d’occidente (di sesso maschile e femminile) vorrebbero lapidarlo. Anzi, può permettersi di non capire neppure il significato di questa parola, che esiste solo in occidente e che non siamo più in grado di incuneare, a forza di bombe, nei vocabolari altrui. Per tutto il resto del mondo, il sesso è un dato di fatto, non una teoria o un’ideologia, e coincide con ruoli sociali definiti e specifici. La nostra attitudine a trasformare le realtà della natura in deliranti astrazioni simboliche non ha più artigli per scavarsi una sordida tana nel territorio degli altri popoli. Resta solo una fonte di divertimento e di parziale sconcerto per tutti coloro che assistono increduli alla nostra morte demografica, mentre ci aggrappiamo ostinati alle disquisizioni scolastiche che hanno trasformato le nostre donne in esseri fastidiosi, inutili ed inadatti alla procreazione, pretendendo pure – tra l’ilarità generale – di imporre al resto dell’universo il nostro “cupio dissolvi”.
L’Iran possiede – come ha orgogliosamente sottolineato Ahmadinejad nell’intervista rilasciata a Larry King – le risorse alimentari, minerarie, industriali ed energetiche per fare a meno di noi. Siamo noi che abbiamo bisogno dell’Iran, non viceversa. E dobbiamo andare, come ladri di notte, a mercanteggiare con i loro rappresentanti la compravendita dei beni che ci servono per sopravvivere e che il dominus non è più in grado di garantirci, di soppiatto, tentando di non farci scoprire dal padrone, che ogni tanto si accorge della nostra infedeltà e ci convoca d’urgenza per redarguirci. Come ha fatto di recente Gideon Meir, ambasciatore israeliano in Italia, accorgendosi che le nostre importazioni dall’Iran sono raddoppiate rispetto al primo semestre dell’anno scorso.
L’Iran possiede non solo le capacità militari e strategiche, ma anche la preparazione sociale per proteggersi dai propri nemici. I suoi cittadini sono soldati o figli di soldati che hanno combattuto contro l’Iraq una guerra spaventosa e sanguinosa in difesa della propria repubblica. Non giovinastri cialtroni con il piercing al sopracciglio, rimbecilliti da Facebook e da Lady Gaga. L’Iran non deve elemosinare da nessuno, neppure dai russi, la protezione territoriale della nazione. E’ una nazione pacifica, che non ha mai aggredito militarmente nessun altro paese nel corso della sua storia, ma che non esita a difendersi quando viene attaccata e a sfruttare l’incapacità militare altrui per rafforzarsi ed espandersi. Come ha saputo fare, con grande abilità, sfruttando la debolezza dell’esercito invasore americano in Iraq. Fabbrica da sè le armi, ormai altamente sofisticate, che servono alla difesa del proprio territorio, senza dover sopportare la presenza di basi straniere nemiche nelle proprie città, senza doversi porre sotto l’egida di organizzazioni militari internazionali che vanificano e umiliano ogni speranza di indipendenza politica, senza dover tollerare la corruzione e l’incapacità di politicanti-marionetta insediati ai vertici delle istituzioni dai conquistatori al solo scopo di mantenere in permanenza il paese nella condizione mortificante di possedimento coloniale.
L’Iran è tutto ciò che noi avremmo potuto essere senza il 25 aprile, quando, per vigliaccheria, abbiamo iniziato a chiamare “liberazione” ciò che era in realtà la disfatta più completa e umiliante che il nostro paese avesse mai subìto in tutta la sua storia. Per questo brucio d’invidia per gli iraniani e per il mondo, ricco di futuro, in cui si trovano a vivere. Se 65 anni fa avessimo avuto un briciolo della loro fierezza, oggi avremmo ancora il diritto di chiamarci italiani e di dare un senso a questa definizione. Siamo invece un buco nero di paura, di annebbiamento morale, di servilismo ormai congenito e costantemente corroborato per via mediatica, dal quale nessun Ahmadinejad potrebbe più farci uscire. Neppure se un Ahmadinejad, qui tra le mura della nostra prigione, fosse anche solo lontanamente immaginabile.
Fonte http://blogghete.blog.dada.net
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