16 ottobre 2010

Da dove arrivano i soldi dei taleban?

Mentre gli afghani si preparano a eleggere il parlamento, il sito Wikileaks ha reso pubblici nuovi documenti a conferma dell'impasse occidentale in Afghanistan. Malgrado ciò, il Congresso americano ha stanziato altri 59 miliardi di dollari per finanziare la guerra. Fondi che in parte rischiano di finire nelle tasche dei taleban.


Hajji Mohammad Shah non ha avuto fortuna. L'anno scorso, aveva iniziato la costruzione di una strada nei dintorni di Kunduz, nel nord dell'Afghanistan: venticinque chilometri che dovevano permettere ai contadini del distretto di Chahar Dara di andare a vendere i loro prodotti al mercato del capoluogo. Costo del progetto: 63.600 euro, forniti dalla Banca asiatica per lo sviluppo. Non appena cominciati i lavori, un talebano si è presentato al consiglio degli anziani del distretto, i promotori dell'operazione, chiedendo il pagamento di un contributo. Questi hanno versato 13.900 euro per evitare che la strada venisse distrutta ancor prima di essere finita. Poi si è presentato un secondo emissario: hanno pagato di nuovo. Al terzo postulante, hanno spiegato di non avere più soldi. Risultato: un giorno di marzo del 2010, mentre Shah ritornava dalla pausa pranzo in città, ha trovato gli operai presi in ostaggio da uomini armati, e dieci dei suoi mezzi bruciati. Le perdite ammontano a 176.000 euro. Può sempre tentare di ricorrere alla sua assicurazione...
Mohammad Omar, il governatore di Kunduz, è incerto circa la spiegazione: non sa se gli anziani non hanno pagato abbastanza o se invece non hanno oliato gli ingranaggi giusti. Riassume, fatalista: «Qui, i taleban qui fanno quello che vogliono. Uccidono, torturano, fanno a gara nell'imporre il controllo del racket.» Omar conosce l'ampiezza del sistema di estorsione messo in piedi dal suo omologo taleban, il «governatore ombra» di Kunduz. Quest'ultimo preleva una percentuale su quasi tutto ciò che si costruisce nella regione: strade, ponti, scuole, cliniche... Più si «ricostruisce» l'Afghanistan, e più i taleban si arricchiscono.

Alla domanda «Cos'è che riempie le tasche del mullah Omar?», la risposta è spesso una sola: oppio. Ma l'oppio, secondo un rapporto pubblicato nel 2009 dall'Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc) (1), rappresenta solo il 10 o il 15% degli introiti dei taleban (tasse e traffico). «La maggior parte del denaro è prelevata in loco - conferma Kirk Meyer, responsabile dell'Afghan Threat Finance Cell all'ambasciata americana di Kabul. Non sappiamo in quale misura i guadagni realizzati grazie all'oppio dell'Helmand (2)vengano ridistribuiti alle province più povere. In altre zone, i taleban vivono grazie a donazioni di false organizzazioni non governative (Ong), a rapimenti, al contrabbando di legno di cedro e di minerale di cromo alla frontiera pakistana...» Banchieri efficienti e discreti Abdul Kader Modjaddedi, 32 anni, è ingegnere. È il nipote di Sibghatullah Modjaddedi, primo Presidente della repubblica dopo la caduta del regime comunista nel 1992 e attuale presidente del Senato. In questi giorni sta costruendo niente più che sette chilometri di strada ai piedi delle montagne della provincia del Laghman. A difesa dei suoi mezzi, c'è naturalmente uno spiegamento di guardie. Dettaglio sorprendente, la metà di loro è in uniforme, l'altra metà indossa tuniche tradizionali e porta rigorosamente la barba. Perché? Perché i secondi gli sono stati inviati dai responsabili taleban locali, in cambio di 52.000 euro, per tutta la durata dei lavori. «Poca cosa! - assicura, sorridendo.

Se dovessi pagare cento guardie, mi costerebbero 16.000 euro al mese.
Con i taleban, sono 8.000 euro, e il cantiere è sicuro.» Modjaddedi ha subito quattro o cinque attentati, ma, da sei mesi, tutto è calmo.

Il governatore della provincia è al settimo cielo. Gli americani, che finanziano la strada attraverso il Provincial Reconstruction Team, un programma militare destinato a «conquistare i cuori e le menti», lasciano fare.
Il piccolo cantiere del Laghman non è un caso isolato. Wali Mohammad Rasuli, ex viceministro dei lavori pubblici, in pensione da quattro mesi, difende questo sistema. «Ne ho parlato due volte con il presidente Hamid Karzaï, per più di due ore. Se finiamo le strade, la circolazione e il commercio porteranno automaticamente maggiore sicurezza. Per quanto riguarda i taleban, li paghiamo già, smettiamola con le ipocrisie!» Per il ministro in carica, come per tutti i donatori internazionali, non esiste l'ipotesi di un ricorso ai taleban. Linea ufficiale: noi non diamo un centesimo agli insorti.

I principali bersagli di questo racket sono i militari americani, o più precisamente i loro subappaltatori. Ogni mese, da sei a ottomila convogli consegnano a quasi duecento basi militari il materiale necessario alla guerra: munizioni, benzina, materiale per ufficio, carta igienica, televisori (3)... La maggior parte dei convogli sono assicurati da compagnie private, nel quadro di un contratto da 2,16 miliardi di dollari (1,6 miliardi di euro, cioè il 16,6% del prodotto interno lordo afghano nel 2009) chiamato «Host Nation Trucking», firmato nel marzo 2009. Constatazione di un ufficiale americano della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza in Afghanistan (Isaf): «Non conosciamo le filiere di subappalto. Non sappiamo se pagano i taleban per passare in sicurezza. (...) Immettiamo lì dentro miliardi, ed è possibile che qualche milione finisca nelle mani degli insorti.» Zarghuna Walizada è l'unica donna a dirigere una compagnia di trasporto in Afghanistan. Ci riceve senza velo, in un ufficio di color viola intenso arredato stile anni '70. Sa che gli americani lavorano sotto pressione e che non rimborsano i camion aggrediti per strada. «Chi bisogna pagare? La polizia, gli insorti, i taleban? Non m'interessa.

L'importante è che i camion passino.» In alcuni casi, il trasferimento avviene anche senza scorta: «Perché dovremmo averne bisogno? I taleban garantiscono la nostra sicurezza.» «Certo, paghiamo i taleban - riconosce Ghulam Abas Ayen, segretario del principale sindacato dei trasportatori stradali. In nome di Dio, potete credermi, si tratta di racket puro e semplice. Alcune società di sicurezza private ci chiedono 2.000 dollari per container, per poche centinaia di chilometri di strada. La metà di questa somma può benissimo finire nelle mani dei taleban.» Come si conduce la trattativa di un passaggio? Non direttamente, certo. «Il mio superiore non gradirebbe che andassi a discutere con i capi tribali dell'Helmand - butta lì Juan Diego Gonzales, ex militare americano oggi a capo della compagnia di sicurezza privata afghana White Eagle. Abbiamo degli intermediari che reclutano le nostre guardie localmente. (...) Talvolta, è lo stesso capo tribale, o suo figlio, che dirige il convoglio. L'unica cosa che si può sperare è che non abbiano legami troppo diretti con i taleban.» Afferma di lavorare su strade dove l'equilibrio dei poteri è precario: nessun signore della guerra garantisce da solo l'intero percorso. Questo gli lascia un certo margine nella scelta dei partner. Ma ci sono altre strade dove, come segnala un responsabile afghano della compagnia privata di origine australiana Tac Force, «se ci si va da soli, si rischiano grossi problemi. Senza l'autorizzazione del signore locale, ti ammazzano».

A suo dire, Tac Force segue le raccomandazioni del ministero dell'interno afghano per individuare quali siano i signori della strada «giusti».
Attualmente, il più potente tra loro si chiama Ruhullah. Questo comandante, che non ha mai incontrato un ufficiale dell'esercito americano, ha una quarantina d'anni. Porta un Rolex sotto il suo shalwar kamiz - l'abito tradizionale - , parla con un tono di voce curiosamente alto e controlla una parte fondamentale dell'autostrada n. 1, che collega Kabul al Sud pashtun, via Kandahar. Ruhullah lavora in associazione con i fratelli Popal, proprietari del gruppo Watan e cugini del presidente Karzai. Sulla loro strada, un convoglio tipico conta trecento camion ed è scortato da quattro a cinquecento guardie private. Il passaggio di un container verso Kandahar può essere fatturato fino 1.200 euro.

In totale, secondo un recente rapporto della Camera dei rappresentanti degli Stati uniti (4), il signore della strada e i suoi soci anglofoni incassano «diverse decine milioni di dollari l'anno» per scortare i convogli americani. Ruhullah, come i fratelli Popal, nega decisamente di pagare i taleban là dove non può passare usando la forza. Afferma che l'anno scorso ha perso quattrocentocinquanta uomini.
Parecchie imprese di sicurezza e di trasporto si sono lamentate a più riprese con l'esercito americano, per le perdite finanziarie causate dal ricorso sistematico ai signori della guerra, senza però che i militari sappiano come risolvere il problema.

Tuttavia il denaro non arriva ai taleban solo con il fucile. Passa anche da banchieri efficienti e discreti che fanno transitare le importanti donazioni in arrivo dal Golfo, via Dubai e Pakistan. Centro nevralgico, il mercato dei cambisti Serai Shahzada a Kabul: tre piani di gallerie aperte su un cortile, grandi banchi di legno posati sulla nuda terra, ricoperti di pacchi di dollari, rupie, yuan, e una folla degna delle halles di Parigi ai bei tempi. Secondo uno studio dell'Afghan Threat Finance Cell, il 96% degli afghani preferisce questi mercati agli sportelli delle banche quando deve trasferire il proprio denaro.

Basta entrare nell'ufficio di uno qualunque fra i cento e più broker (hawala) che si trovano lì: bottegucce strette, senza rapporti con l'ampiezza del loro commercio, dove una mezza dozzina di impiegati, sprofondati in divani di cuoio che scottano, registra ogni sera sulla calcolatrice gli incassi della giornata. È un sistema che data dall'VIII secolo. Permette di far arrivare in poche ore dall'altra parte del pianeta, ad un agente affiliato al vostro, centinaia di migliaia di euro con una commissione minima. Secondo Hajji Najeebullah Akhtary, segretario del sindacato dei cambisti di Kabul, qui transitano ogni giorno 4 milioni di euro. Il sistema è basato sulla fiducia: ciascuno conosce il proprio cliente o i suoi garanti.

Una catena di complicità Dal 2004, lo stato tenta di registrare questi agenti e di ottenere ogni mese il dettaglio delle loro transazioni. Akhtary, seduto sotto un televisore che trasmette un episodio del cartone animato americano Tom & Jerry, dice che «decine di informatori circolano qui tutti i giorni» e gettano un'occhiata nei libri dei conti. Ma il mercato di Kandahar, estremamente attivo, resta inaccessibile agli ispettori, per mancanza di sicurezza. Eppure una parte non trascurabile delle finanze dei taleban passa proprio attraverso il sistema dell'hawala.

L'Unità di intelligence finanziaria della banca centrale ha registrato il transito nel paese di 1,3 miliardi di dollari in banconote saudite dal gennaio 2007. Secondo il suo giovane capo, Mustafa Masudi, «il denaro appare nelle zone tribali pakistane: mi sa dire chi ha bisogno di riyal sauditi laggiù? Da Peshawar [al nord del Pakistan], questi soldi sono inviati via hawala a Kabul, dove vengono cambiati in dollari.
A questo punto i dollari filano verso le colline, mentre i riyal ripartono verso Dubai dall'aeroporto, in modo del tutto legale».

Bisogna sentire il generale Mohammad Asif Jabbar Kheel, incaricato della sicurezza dell'aeroporto di Kabul, urlare come uno scaricatore di porto contro la legge che autorizza chiunque lo voglia a prendere il volo con qualche milione in denaro liquido, a condizione che lo dichiari. A Dubai poi, da quando la crisi economica ha colpito il paese nel 2009, le autorità sono ancora meno scrupolose sull'origine dei fondi. Un ufficiale americano racconta che, l'anno scorso, dall'aeroporto di Kabul sono stati trasferiti negli Emirati più di 1,75 miliardi di euro. Dettaglio interessante: secondo Masudi, la maggior parte di questi trasferimenti è effettuato da appena una decina di persone, agenti di hawala per lo più. Il generale Jabbar ci fa vedere una lista. I nomi sono sottolineati con rabbia, le somme impressionanti: 360 milioni di euro trasferiti da un'unica persona nel 2009, 69 da un'altra... Tutto questo denaro non è legato solo ai taleban. Alcune somme sono legali, altre sono una parte dell'aiuto internazionale sottratto da personaggi ufficiali, altre ancora sono legate al traffico di droga, che non è certo gestito unicamente dagli insorti. Questi pancali di biglietti avvolti nella plastica e caricati nelle stive dell'Ariana Afghan Airlines sono anche il sintomo delle difficoltà dello stato nel controllare le proprie finanze. L'anno scorso sono stati incassati solo 636 milioni di euro di imposte doganali, mentre 
l'amministrazione potrebbe ottenerne il doppio. Il capo delle dogane, Said Mubin Shah, giovane vice-ministro di buona volontà, non può recarsi in alcuni posti di frontiera perché si chiede chi mai lo proteggerebbe dalla...
polizia. Molti ufficiali, infatti, svolgono funzioni doganali per proprio conto. Al posto di Spin Boldak, Mubin Shah preferisce la paterna scorta di un signore della guerra, sospettato di collusione con i taleban. Si gira in tondo, non è vero?
LOUIS IMBERT
Giornalista.

(1) Unodc, «Addiction, crime and insurgency: The transnational threat of Afghan opium», ottobre 2010, www.unodc.org.

(2) Provincia del sud-ovest dell'Afghanistan, dove si coltivano grandi superfici di papavero.

(3) Leggere Syed Saleem Shahzad, «Afghanistan e Pakistan, l'irruzione dei neo taleban, Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 2008.

(4) «Warlord, Inc: Extortion and corruption along the U.S. supply chain in Afghanistan», Camera dei rappresentanti, Washington, 22 giugno 2010.
(Traduzione di G.P.)

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