di Junko Terao
il nemico numero uno Rapporti politico-economici rotti, militari in allerta
Se con l'arrivo al potere del presidente Lee Myung-bak nel 2008 la Sunshine policy era stata dichiarata morta, da ieri la si può considerare ufficialmente sepolta. La politica della distensione dei rapporti tra le due Coree, inaugurata nel 1998 da Kim Dae-jung e portata avanti dal suo successore Roh Moo-hyun, è stata spazzata via definitivamente dalla nuova crisi in cui i due paesi sono precipitati negli ultimi giorni.
Per Seoul, infatti, Pyongyang è di nuovo formalmente il «nemico numero uno». Una definizione usata per la prima volta nel 1994 e tolta dai documenti ufficiali nel 2004: «In questi ultimi dieci anni», ha spiegato ieri il presidente Lee, che fin dall'inizio del suo mandato aveva mostrato il muso duro nei confronti di Pyongyang, «avevamo sottovalutato il reale pericolo che ci minaccia».
La nuova crisi, probabilmente uno dei punti più bassi nelle relazioni tra i due paesi dalla guerra fredda in poi, si è mostrata in tutta la sua serietà dopo che giovedì scorso una commissione indipendente ha confermato che ad affondare la corvetta sudcoreana Cheonan, il 26 marzo, è stato un siluro sparato da un sottomarino di Pyongyang.
Alla minacciosa promessa di Lee, «la pagheranno», i nordcoreani hanno risposto sbattendo la porta in faccia a Seoul e al pacchetto di misure annunciato martedì che taglia, di fatto, quasi tutti i ponti rimasti finora ancora in piedi, tranne gli aiuti umanitari e i rapporti commerciali nella zona speciale di Kaesong. La replica di Pyongyang è arrivata ieri con l'espulsione di duemila sudcoreani da Kaesong e della Croce rossa, l'unico filo che in passato, nei periodi più difficili, aveva resistito.
Strategia della tensione e guerra psicologica lungo il trentottesimo parallelo, dunque, dove i sudcoreani stanno installando potenti altoparlanti per far arrivare il più lontano possibile gli slogan della «Voce della libertà», programma radiofonico di propaganda anti-Pyongyang, in onda già da lunedì sera per tre volte al giorno. E riprenderà anche la distribuzione di volantini informativi fatti cadere dal cielo attraverso palloni aerostatici.
La crisi è lievitata poco a poco dopo l'affondamento del Cheonan, in cui 46 uomini sono morti, e i continui sconfinamenti delle navi della marina di Seoul nelle acque territoriali del Nord, «una deliberata provocazione con lo scopo di far sfociare i rapporti in una guerra», secondo quanto riportava ieri l'agenzia di stampa nordcoreana che aggiungeva che «se dovesse accadere ancora risponderemo militarmente». Da aggiungere alle misure di Seoul, anche le annunciate esercitazioni militari congiunte con la marina statunitense.
Fino a ieri in visita a Pechino, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha ribadito l'appoggio ai sudcoreani e condannato a più riprese la condotta di Pyongyang invocando l'appoggio di tutti, in primis quello di Pechino. È proprio sull'unico interlocutore di Pyongyang che è concentrata l'attenzione di tutti in queste ore. Davanti a Clinton, Hu Jintao si è impegnato «ad appoggiare gli sforzi internazionali per risolvere la crisi», ribadendo però che «la via del dialogo» è quella che preferisce. Che, tradotto, significa che di sanzioni internazionali, per ora, non se ne parla.
«Pechino, che è più realista del re, sa bene che le sanzioni servono a poco, se non a far reagire Pyongyang con nuove provocazioni», commenta al manifesto la coreanista Rosella Idèo, dell'Università di Trieste. «La Cina chiaramente non si espone, ma sta lavorando ai fianchi dei nordcoreani, fa quello che il suo ruolo, riconosciuto da tutti, richiede. Anche se il Consiglio di sicurezza dell'Onu dovesse approvare nuove sanzioni - continua Idèo -, il compito di Pechino sarebbe quello di limitarne la portata al minimo.
Già in passato la Cina, per mostrarsi non troppo indulgente agli occhi della comunità internazionale, aveva stabilito delle misure contro Pyongyang che però equivalevano a un buffetto sulla guancia. Del resto dall'anno scorso Pechino ha applicato ai suoi rapporti con la Corea del Nord una «normalizzazione» perlomeno del linguaggio, dialogando «da stato a stato». Questo perché l'interesse della Cina è che Pyongyang mantenga la stabilità interna, soprattutto in questo momento in cui Kim Jong-il si prepara a passare lo scettro del potere al delfino Kim Yong-nam. La stabilità dell'intera penisola, poi, è fondamentale nel nuovo disegno di Asia orientale che Pechino ha in mente».
Lettera22
26/05/2010
fonte: www.ilmanifesto.it
27 maggio 2010
Corea contro Corea: il nemico numero uno
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