28 maggio 2010

Un paese può fare bancarotta?

GOVERNI ALLA MERCÉ DELLE BANCHE
«Non pagheremo la vostra crisi.» Gli striscioni esposti ad Atene, dove si susseguono gli scioperi contro il piano di austerità - a fine febbraio - , non avrebbero stonato nemmeno in Islanda, la cui popolazione si ribella all'idea di rimborsare i debiti faraonici ereditati dall'affondamento delle banche. Avrebbero reso l'idea anche nelle mani dei manifestanti spagnoli che protestano contro il prolungamento dell'età pensionabile. E così pure in quelle dei milioni di lavoratori che hanno perso il lavoro a partire dall'inizio della recessione. Il Fondo monetario internazionale, raccomandando la «stabilizzazione» delle spese sociali, ha avvertito: in Europa, il risanamento «sarà estremamente doloroso».


di LAURENT CORDONNIER*
Contrariamente a una famiglia o a un'impresa, uno stato posto nell'impossibilità estrema di pagare i suoi debiti... non li paga più,
senza tuttavia scomparire dal registro di commercio né dalla faccia della terra: infatti, esso non è costretto a liquidare il suo patrimonio per risarcire i suoi creditori. Nel caso di un nucleo familiare, il fallimento si salda attraverso una liquidazione: vendita dell'abitazione e dell'argenteria di famiglia per pagare come si può gli ultimi salari dovuti ai domestici e i conti lasciati presso la rosticceria, il notaio o la banca - lasciamo al lettore il compito di immaginare una famiglia che vive al di sotto della soglia di povertà.
 
 Nel caso di un'impresa, si vendono (bene o male) i macchinari, gli immobili, i brevetti, il parco auto ecc. per regolare (bene o male) i fornitori, le banche, gli altri prestatori e i dipendenti che aspettano pazientemente i loro salari arretrati.


A differenza di un'azienda in difficoltà, che non può tentare di «rifarsi» aumentando i prezzi nel momento in cui i suoi clienti la abbandonano, e che non ha sempre la possibilità di ridurre i suoi costi (al di sotto di una certa soglia), lo stato dispone dei mezzi politici per scongiurare lo scenario catastrofico causato da un mancato pagamento, aumentando le sue entrate o contenendo le sue spese. Per quanto riguarda gli introiti, allo stato sarebbe sufficiente aumentare le imposte, «con un giusto criterio» (si legga l'articolo di Frédéric Lordon, pagina 7). Ciò significa sottoporre a nuovi prelievi le categorie sociali più agiate, quelle che risparmiano di più (1) - l'operazione avrebbe quindi un impatto lieve sulle spese per i consumi - e che sono di fatto i creditori dello stato.

Il prelevamento equivarrebbe in sostanza a sopprimere quella sorta di diritto censuario proprio dell'era neoliberista che consiste nel lasciare alle classi agiate la libertà di scelta rispetto all'assegnazione del loro surplus di reddito non consumabile: sia destinarlo al pagamento delle tasse, sia metterlo a rendita per finanziare il debito pubblico (quest'ultima scelta si rende ipso facto necessaria una volta scartata la prima opzione). È sufficiente formulare la questione in tal modo per anticipare che l'aumento delle tasse per le classi benestanti sarà sempre la decisione respinta da tutti i governi europei.

Una volta esclusa la leva delle entrate, allo stato, rinunciando ad aumentare le tasse, rimane la possibilità di tagliare di netto le spese pubbliche (e necessariamente la produzione dei servizi collettivi) riducendo i salari, le pensioni e il numero dei suoi dipendenti, o le commesse pubbliche. Viene imboccata dunque questa strada. Ma essa non può sicuramente essere sufficiente. Per esempio il blocco del turnover di un dipendente in via di pensionamento su due fa risparmiare allo stato 500 milioni di euro all'anno... da confrontare ai 3 miliardi di euro di riduzione dell'Iva accordati al settore della ristorazione (per l'intero anno), o ancora ai 25 miliardi di esonero dai contributi dei datori di lavoro che lo stato deve (teoricamente...) ripagare al sistema di protezioni sociali.

L'ipotesi di un mancato pagamento dei debiti pubblici non costituisce più uno scenario impossibile Se, oltre a questi regali fiscali, il prodotto della tassazione continua a ridurre il suo tetto massimo a causa di una crescita mediocre, dovuta ad un regime finanziario e globalizzato profondamente depresso, l'ipotesi di un mancato pagamento dei debiti pubblici - quello della Grecia, ma anche di Spagna, Portogallo, Italia, Francia, Regno unito, Giappone o Stati uniti - non costituisce più uno scenario completamente impossibile. Tanto più che, in materia, non sarà un'analisi razionale della situazione finanziaria di ogni stato a dettare legge, ma piuttosto l'idea che i creditori e gli speculatori si faranno della situazione.

Dal momento in cui questi attori vengono sedotti dalla plausibilità di uno scenario catastrofico (nulla li diverte più delle tendenze che permettono loro di fare delle scommesse), essi provocano i movimenti di vendita e acquisto che fanno avverare la tendenza, al rialzo o al ribasso, sulla quale hanno fondato le loro scommesse. L'innalzamento dei tassi d'interesse sui debiti pubblici (definito «crac delle obbligazioni») è quindi essenzialmente il risultato di una profezia che si autoavvera, i cui effetti tangibili confermano le loro previsioni iniziali. Il momento preciso in cui gli stati paiono raggiungere la soglia di indebitamento e il limite critico degli interessi (o al contrario sembrano evitarli, per l'effetto valanga che combina il cumulo dei deficit ed il rialzo dei tassi di interesse passivi) ovviamente non compare nei manuali di economia. Esso dipende dalla soglia di tolleranza sociale e politica che permette di veder andare distrutte senza reazione alcuna le capacità produttive dello stato a beneficio degli interessi privati sul debito. Secondo il teorema di Fernand Raynaud, prima che il vaso trabocchi, può passare un «certo tempo». Ma quanto?

Una volta raggiunta tale soglia, il mancato pagamento non è più molto lontano. Escludendo un intervento d'urgenza del Fondo monetario internazionale (Fmi) - il che sarebbe un' «umiliazione», secondo Jean-Claude Trinchet (presidente della Banca centrale europea, Bce), che ha evocato il caso della Grecia, - non rimane altro che la possibilità di un finanziamento attraverso la creazione di moneta. L'economista postkeynesiano statunitense Thomas Palley suggerisce che la Bce dovrebbe dotarsi di un sistema di diritti al rifinanziamento monetario di una parte dei debiti pubblici degli stati. Tali diritti da prendere a prestito dalla Bce - denaro creato per l'occasione - sarebbero concessi ai paesi della «zona euro» sulla base di quote annuali, tenendo conto dell'importanza di ogni paese e della sua situazione (2). Ciò creerebbe una sorta di «stabilizzatore automatico». L'istituto diretto da Jean-Claude Trinchet, prestando denaro agli stati, si comporterebbe con essi come fece per salvare le banche nel 2008 e nel 2009.

L'inconveniente di questa proposta (tuttavia fondamentalmente pertinente) risiede nel fatto che gli statuti della Bce sono stati concepiti proprio per vietarle di rifinanziare direttamente gli stati membri, al fine di prevenire qualunque deriva di bilancio giudicata «lassista» - ma in questo come in altri casi, il metodo sembra mancare di efficacia...

C'è sicuramente un'altra strada. Senza volere usurpare il ruolo di consigliere del gran visir, svolto con profitto da Goldman Sachs (3), gli stati europei potrebbero obbligare le banche attive sul loro territorio a rifinanziare i paesi in difficoltà. Esse, nella misura in cui i titoli del debito arrivassero a scadenza, sarebbero obbligate a sottoscrivere titoli nuovamente emessi. Sostituendosi ai rentiers troppo presi dai loro interessi, le banche farebbero credito a questi stati sulla base di un tasso di interesse limitato da un tetto massimo stabilito. In fondo, tali prestiti obbligatori non farebbero che obbligare l'asino a bere oltre la sua sete acqua salata, lo si deve ammettere.

Le istituzioni monetarie e finanziarie della «zona euro» possiedono già 1.000 miliardi di euro di effetti a scadenza, sotto forma di crediti concessi alle collettività pubbliche (stati, regioni, enti pubblici, ecc.) e 1.500 miliardi sotto forma di acquisizione di titoli.

Ovvero da otto a dieci volte l'ammontare totale del debito pubblico della Grecia (4). Gli istituti finanziari, normalmente avidi di titoli di stato un tempo considerati non rischiosi - «un tempo», ovvero prima che le banche stesse non facessero correre tutti i rischi all'economia e agli stati - , non farebbero in tal modo che riparare i danni provocati.

Al di là della sua semplicità, questo modo di agire presenterebbe numerosi vantaggi. Esso permetterebbe alla Bce di restare nei suoi ranghi, senza presentarsi come diretta prestatrice, anche se la soluzione giungerebbe sempre da essa. Perché le banche, obbligate ad acquistare il debito della Grecia o di altri paesi, dovrebbero rifinanziarsi in parte tramite la Bce concedendole in contropartita dei titoli ben quotati... compresi i titoli dei debiti di stati membri della «zona euro», che esse possiedono già e che sono regolarmente ammessi ai rifinanziamenti dall'istituto di Francoforte (5)? A questo punto non si può escludere nulla.

La reticenza dei rentiers di fronte alla prospettiva della loro propria eutanasia Il secondo merito di questa proposta è che essa instaurerebbe una sorta di reciprocità tra le banche e gli stati: dato che questi ultimi sono intervenuti massicciamente per salvare le prime, esse avrebbero ora l'occasione di dimostrarsi riconoscenti soccorrendoli a loro volta (per chi ama le favole a sfondo morale...). Infine, considerando che l'operazione non sarebbe priva di oneri per le banche, essa presenterebbe una parte del conto della crisi finanziaria ai suoi responsabili.

Senza tuttavia gonfiare le spese. Dal momento che - come ammesso dagli economisti - la crisi finanziaria spiega la metà dell'approfondimento dei deficit pubblici (a causa del rallentamento dell'attività economica e della riduzione di entrate fiscali che ne segue). La limitazione degli interessi percepiti dalle banche sarebbe quindi un modesto contributo della finanza alla riparazione dei propri guasti. Ma una tale misura (che bisogna ragionevolmente situare al centrodestra dello scacchiere politico) avrebbe in definitiva poche possibilità di concretizzarsi, per una serie di ragioni abbastanza estranee alla logica economica: procedimento giudicato inflazionista e dunque incompatibile con l'ortodossia monetaria diffusa; reticenza dei rentiers di fronte alla prospettiva della loro propria eutanasia; divergenze di interessi tra i paesi del Nord e del Sud dell'Europa, ecc.

Potrebbe quindi essere presa in considerazione l'opzione estrema: il ripudio del debito pubblico. Gli stati, trovandosi nell'impossibilità di finanziarsi, a qualunque condizione, hanno in ultima istanza la libertà di decidere di sbarazzarsi di una parte del fardello, senza tuttavia cessare di esistere. La misura della riduzione potrebbe allora essere negoziata con i prestatori (ma chi sono? E dove sono?) o imposta - sia sotto forma di un abbattimento dell'ammontare nominale dei titoli del debito pervenuti a scadenza, sia sospendendo per qualche semestre (e senza speranza di recupero) il versamento degli interessi dovuti. Giunti a questo punto, sarebbe consigliabile tuttavia non essere reticenti e ripudiare totalmente il debito. Poiché, qualunque siano le dimensioni del ribasso, esso costerà al suo autore la reputazione di cattivo pagatore. E, dato che non si può ripetere la procedura cento volte, tanto vale sfruttarla al massimo dei vantaggi.

Lo stato a rischio di asfissia, sopprimendo di colpo il suo debito, ritroverebbe di conseguenza e immediatamente un po' di ossigeno, corrispondente all'ammontare diretto degli interessi versati ai suoi creditori. Vale a dire una cifra pressoché tale da permettere la ripresa della vita normale, se l'economia reale è all'altezza del suo deficit corrente (6). Per i prestatori, sarà difficile superare questo momento: esso significherebbe pagare in una sola volta le tasse arretrate che hanno accumulato negli ultimi vent'anni, preferendo governi che si indebitavano nei loro confronti piuttosto che governi che riscuotevano le tasse su di loro.

note:
* Economista, autore di L'Economie des Toambapiks, Raisons d'agir, Parigi, 2010.
(1) Nel 2003, in Francia, il 20 % delle famiglie più ricche risparmiavano un terzo dei propri redditi, contro meno del 10 % dell'insieme degli altri nuclei familiari. Fonte: «Comptes nationaux», Istituto nazionale di statistica e di studi economici (Insee), Parigi, 2009; www.insee.fr.
(2) «Euroland is being crucified upon its own cross of gold», Financial Times Economists' Forum, http://blogs.ft.com/economistsforum
(3) Le banche d'affari avrebbero giocato su tre tavoli: innanzitutto, aiutando lo stato greco ad accomodare il suo debito per farlo coincidere con le esigenze europee; secondariamente, consigliando Atene sui mezzi per finanziare il suo debito (esplorando la pista cinese...un buon mezzo per comunicare che la situazione è disperata); in terzo luogo, prendendo simultaneamente posizione per l'innalzamento sui credit default swap (Cds, prodotti derivati che hanno la funzione di trasferire l'esposizione creditizia di prodotti a reddito fisso tra le parti) del debito greco. Se esce testa vinco io, se esce croce perdi tu!
(4) Ecb Monthly Bulletin, Banca centrale europea, Francoforte sul Meno, gennaio 2010.
(5) Nel dicembre 2009 la Bce possedeva l'ammontare di 333 miliardi di titoli pubblici; Ecb Monthly Bulletin, gennaio 2010.
(6) Secondo uno studio citato da Cfo-news del 12 febbraio 2010 (http://www.cfo-news.com/), se i tassi di interesse del debito greco salissero fino all'8 % e il debito stesso aumentasse fino al 140 % del prodotto interno lordo (Pil), il carico degli interessi giungerebbe a rappresentare il 9 % del Pil... ovvero ben più che l'ammontare del deficit annuale su cui la Grecia può fare affidamento, una volta colmata la voragine della recessione. Quale stato potrebbe rinunciare a guadagnare il 9 % del Pil sul suo bilancio annuale e, al tempo stesso, a ridiventare in un batter d'occhio un modello di virtù budgetaria? Risposta: uno stato neoliberista.

(Traduzione di Al. Ma.)
 
Fonte: http://www.monde-diplomatique.it/ (marzo 2010)

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