31 agosto 2010
Crescita, la festa è finita: il futuro dell’Italia fa paura
Fino agli anni novanta si credé nell’ultimo grande ciclo ritenuto irreversibile e innovatore, autopropulsivo e all’altezza della globalizzazione: l’interminabile ciclo della piccola e media impresa, dei distretti industriali della Terza Italia, fucine di occupazione e di nicchie di mercato aperte al mondo. Quanti politici cercarono di cavalcare l’illusione che i distretti sarebbero entrati in sistema, portando un nuovo capitalismo al centro del mondo? I capannoni vuoti – nel Nordest italiano e non solo – oggi ci raccontano quell’abbaglio. La scala gerarchica chiusa del nostro mercato dei capitali non si è mai schiodata dall’affidare alle sole seconde e terze linee della liquidità la gestione finanziaria delle imprese sottocapitalizzate dei distretti, negli stessi anni in cui le manifatture cinesi interagivano invece con risorse coordinate, programmi di vasta portata, proiezioni decennali e investimenti nel sapere.
Niente di meglio che osservare la faccia di Pierluigi Bersani in visita a un’industria decotta per vedere che c’è sempre chi non capisce quando un’epoca è finita senza rimedio. Poteva compiere quel salto – da distretto a sistema – solo una società in cui fossero diffuse le competenze e le capacità. Solo che negli anni novanta non l’ultima delle regioni, ma l’opulenta Lombardia aveva tassi di scolarizzazione inferiori alla media europea. E da allora la Lombardia ha regalato al sistema scolastico – via Calabria – la ministra Gelmini, per dire.
Potete capire quale “crescita” potrà venire da un ordinamento che taglia le risorse dell’istruzione di un quarto in un anno. Potevamo già saperlo registrando il deficitario standard nell’epoca in cui si chiudevano i cicli del capitalismo italiano. Oggi basta vedere l’unanimità di sguardi attoniti di coloro che hanno ancora memoria di cosa debba essere l’istruzione, quando contemplano il paesaggio di macerie di scuole e atenei, intanto che Cina e India sfornano ciascuna più di mezzo milione di ingegneri all’anno.
Altro importantissimo ciclo sullo sfondo, che ha trovato una sua chiusura tra gli anni settanta e gli anni novanta, l’industria dei media di massa. Berlusconi ebbe la funzione di accentrare e blindare in un kombinat politico-televisivo-editoriale dominante tutti i meccanismi di remunerazione dei media, in modo da rendere preponderante la risorsa pubblicità. Contrariamente a una delle leggende più tenaci diffuse da Berlusconi, ossia che il sistema di raccolta pubblicitaria da lui realizzato con Dell’Utri abbia fornito sbocchi prima preclusi al Made in Italy, si creò invece un gigantesco spostamento di potere verso il bi-polo produzione/consumo a tutto svantaggio dell’industria italiana, dei suoi insediamenti precedenti, di tutte le dinamiche del lavoro e delle loro rappresentanze. Il sigillo politico ha chiuso questo equilibrio politico ed economico, rendendogli culturalmente satellite anche gran parte dei presunti oppositori.
Questa asfissia dei vecchi cicli economici ha reso l’Italia un ambiente chiuso, provinciale, con classi dirigenti incapaci di ripensare la missione del Paese. Nulla ha sostituito le protezioni finite all’epoca in cui terminavano questi cicli economici e politici assistiti da un sistema daziario e da una qualche autarchia. Il blocco patrimoniale del vecchio controllo familistico sulle grandi imprese ha operato da quel punto in poi rifuggendo l’innovazione imprenditoriale, per specializzarsi ulteriormente nel sistema di pubbliche relazioni che gli assicurava nicchie, rendite di posizione monopolistiche mascherate da privatizzazioni, con pedaggi e contributi sicuri.
C’è una inclinazione ormai totalmente parassitaria del capitalismo mondiale che ci è testimoniata dalle vicende della grande crisi finanziaria globale. In Italia questa fase si è saldata con la selezione di una classe dirigente alla fine dei cicli anzidetti, fino ad esprimere quel tratto cialtrone delle nostre “cricche” incistate nella “casta”. La compagnia di giro dei profittatori all’inseguimento delle Grandi Opere in Italia ha ormai palesemente l’intento di non concluderle.
Il sistema non si è mosso dal neopatrimonialismo fondato sul debito statale, un sistema di gruppi affaristici e clan politici che saccheggiava la spesa pubblica e il territorio, né ha abbandonato i tratti dell’economia politico-collusiva. Il paradosso è che – si tratti di Alta Velocità, di Expo, di Piani Casa, di ricostruzioni post-sisma – ogni depredazione che vada a erodere le basi già compromesse dalla fine dei grandi cicli economici si presenta in modo bipartisan come una promessa di “crescita”, impossibile da mantenere.
La crescita a debito degli anni ottanta alla fine si risolse nell’aumento delle sclerosi corporative della società italiana, gestite da un potere oligarchico e oligopolistico fra i più avidi del pianeta. Nulla fa pensare che una pur improbabile “crescita” oggi potrebbe essere gestita virtuosamente, anzi. Sarebbe iattura novella aggiunta a ventennale iattura. Di cosa parlano allora i politici che auspicano un “Patto per la crescita”, oggi come negli anni novanta?
La crisi nel nostro Paese va al cuore del processo che tiene insieme la nazione, come accade sempre in Italia per le crisi serie. La disgregazione degli anni quaranta o la crisi del 1992-1993 si accompagnarono a spinte che mettevano in discussione la tenuta dell’Italia in quanto stato unitario. Se oggi appare di nuovo attuale la possibilità di una disintegrazione del Paese, significa che c’è stata come una lunga «gelata» che lo ha mantenuto nelle stesse condizioni dei primi anni novanta. La lunga egemonia di Berlusconi ha sin qui congelato il problema.
Sempre più appare chiaro alle potenze della finanza e degli Stati che hanno guidato la globalizzazione, e che a suo tempo avevano puntato su Berlusconi per americanizzare l’Italia e renderla un paese compiutamente consumista e in via di deindustrializzazione, come ora egli non appaia in grado di reggere l’urto del declino della repubblica. Come in altre occasioni puntano su tanti e disparati cavalli, altrettanto incapaci di un alternativa al declino: ad esempio Gianfranco Fini, ma perfino Nichi Vendola, come decantano certe centrali massoniche. E finanche il depotenziato e filobritannico Beppe Grillo potrebbe far loro gioco.
Nel frattempo magari un governo tecnico toglierà qualche castagna dal fuoco e venderà un po’ di argenteria per poter narrare ancora per qualche anno la favoletta della futura ripresa. Il racconto della crescita è stato il punto cardine degli interventi sulle crisi: non sarà dismesso facilmente, se perfino i sei punti in meno di Pil sono spesso pazzescamente definiti «crescita negativa».
L’obiettivo cardine della crescita è stato una forzatura, una chimera che ha fatto perdere importanti occasioni, quando forse si poteva rimettere ordine nella “missione” della nostra strana nazione. Anche nel fatidico 1992. Allora, gli industriali esportatori da una parte, la Comunità europea dall’altra, spinsero a svalutare la lira dell’8%. L’azione coordinata di pochi speculatori trascinò i mercati internazionali a un tasso di svalutazione cinque volte maggiore, superiore al 40%. Nel 1988 si scambiava un marco tedesco con 800 lire, ma nel 1992 non ne bastavano 1200. Era diventata insostenibile la classica crescita con la droga della svalutazione.
Il ponte di comando del capitalismo finanziario internazionale mise i piedi nel piatto e sostituì definitivamente il potere del capitalismo industriale e bancario su basi nazionali fino a prescrivere ai governanti italiani una diversa “promessa” di crescita. Sempre lei. La nuova regolazione si presentava con un precedente che aveva funzionato: in fondo, il boom degli anni cinquanta e sessanta era partito con bassi livelli di consumi, salari non in espansione, apertura internazionale, forti controlli alla spesa pubblica, bassi tassi d’inflazione. L’unica differenza, enorme, era la crescita delle imposte a servizio del mostruoso debito pubblico accumulato negli anni ottanta, più un vasto programma di privatizzazioni.
La caduta dei consumi del 1993, in mezzo a una tempesta di sacrifici che fecero dimagrire le classi medie e lavoratrici, si accompagnò a un calo dei tassi d’interesse e dell’inflazione, nonché a una lira che si rafforzava nei confronti del marco, fino a un rapporto di cambio di 1000 a 1. Ma la disoccupazione si portò al 12%, che significava tendere al 30% nel Sud, cifra ulteriormente scomponibile per età fino a fotografare intere coorti di nuove generazioni che nel Mezzogiorno non trovavano lavoro. La svalutazione aveva ampliato gli squilibri storici fra Settentrione e Meridione. Al Nord si esportava e si conservavano posti di lavoro. Il Sud sperimentava la fine dell’industrializzazione dall’alto e il termine dell’espansione del blocco clientelare d’intermediazione della spesa pubblica.
Il debito accennava a un lieve calo nel paese che però già sborsava meno di tutti nella comunità europea in favore della spesa sociale, per la sanità, per la scuola: un paese che aveva per giunta un sistema pensionistico squilibrato a discapito delle nuove generazioni, e che subiva un’altissima evasione fiscale. Gli accordi sindacali del 1993 pattuirono una ritirata dei lavoratori in nome del difficilissimo equilibrio di un sistema che non intaccava i suoi difetti di fondo. I sindacati dei lavoratori accettavano un arretramento in nome di una futura crescita del Pil.
Nulla cambiava invece per il magmatico blocco sociale che si estendeva dalle classi dominanti assistite fino a un vasto ceto medio improduttivo. Da quelle parti, il mito della crescita era più irresponsabile ancora, più sperperatore, più prono all’illegalità di massa. Negli anni successivi quel mito ha consumato ulteriori porzioni di futuro, e ha selezionato intere generazioni di individui e dirigenti del tutto impreparati ad affrontare una crisi di proporzioni epocali. Si è selezionata cioè una nazione che non sa dirsi la verità, con giornali e politici che non la sanno e non la saprebbero raccontare. Perché così tanti hanno creduto al mito, anche quando scricchiolava, perfino oggi che sopravvive ormai di decenni alle sue reali basi materiali
Il nesso fra la corruzione e il capitalismo delle collusioni e delle rendite di posizione poteva nascondersi dietro la crescita della Milano da bere e a rimorchio di tutte le baldorie degli anni ottanta. Le statistiche Istat sui consumi delle famiglie – registrate negli anni cruciali della trasformazione e del compimento dei cicli economici – a rileggerle, fanno impressione: dal 1973 al 1985 i consumi in alimentari e bevande quintuplicavano, mentre i consumi non alimentari crescevano di oltre sei volte. E questo avveniva in modo omogeneo dal punto di vista geografico e sociale. In termini di riproduzione capitalistica era una forte polarizzazione verso i consumi che si accompagnava a una depolarizzazione sociale. Era una mutazione antropologica già in atto, alla quale l’apparato berlusconiano poi mise un motore che la sovralimentava.
Il debito appariva sostenibile in base alle aspettative di crescita. E la crescita, in base al modello dominante occidentale degli ultimi decenni – soprattutto in Nord America e in Gran Bretagna – era pressoché totalmente affidata al consumo. L’esperimento italiano ha teso verso quel modello, ma non ha più cartucce da sparare. Oggi i debiti sono tutti da pagare. La generazione dei babyboomers, il consumatore-massa irresponsabilmente edonista, riparato dalle certezze previdenziali a lungo capaci di adempiersi ma ora non più, specie quando evaporano in borsa, ebbene, quella generazione non ha più nessun margine. Invecchierà più povera di quanto si aspettasse. E alla generazione che segue decrescono le risorse mentre le certezze previdenziali si azzerano.
È significativo che si torni a un livello di tensioni economiche, finanziarie e politiche ancora fermo al momento che ho tentato di descrivere, quello della fine dei cicli di crescita nei decenni scorsi. La differenza rispetto ad allora è che si è perso tempo, si son consumate nel precariato dequalificante le prospettive di intere generazioni, e nulla ha sostituito il paradigma bloccato della crescita-che-non-potrà-mai-più-tornare. Il processo di ricollocazione della “missione Italia” partirà da questi duri fatti, in grado da soli di sconvolgere i vecchi modi di schierarsi. Il livello travolgente e inusitato dell’astensione nelle recenti tornate elettorali descrive bene un’offerta politica – quella esistente – incapace di affrontare la crisi e il baratro di impoverimento che si apre. Qualcuno riempirà questo vuoto.
(Pino Cabras, estratti da “Quando finì la crescita”, intervento pubblicato da “Megachip”, www.megachipdue.info)
http://www.libreidee.org/
Fonte: http://www.decrescitafelice.it/
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