Negli ultimi mesi, lo Stato ebraico sta vivendo una vicenda di grande importanza per il suo futuro: lo scorso luglio, infatti, il deputato David Rotem ha presentato alla Knesset la versione finale di una nuova "legge sulla conversione" che ha sollevato un'accesa discussione nel mondo ebraico internazionale, costringendo il primo ministro Benjamin Netanyahu a congelare la proposta fino a gennaio, nominando nel frattempo una sorta di commissione arbitrale guidata da Natan Sharansky, l'ex dissidente sovietico divenuto una personalità di rilievo del mondo politico israeliano, attualmente a capo della Jewish Agency, la storica agenzia promotrice della colonizzazione sionista in Palestina.
La legge Rotam tocca le fondamenta stesse dell'identità dello Stato ebraico, dato che investe la questione di chi si possa definire legittimamente ebreo: come si sa, lo Stato israeliano lo ha definito fino dal 1950, con la cosiddetta Legge del Ritorno, come "una persona nata da madre ebrea o che si è convertita all'ebraismo e che non sia membro di altra religione". Una definizione cioè che lascia aperte due sole vie, una legata alla trasmissione matri-lineare di sangue e una invece di carattere religioso.
Mentre il primo aspetto ha sollevato l'esplicita accusa di razzismo da parte di chi la ritiene una discriminazione in contrasto con la Carta dei Diritti dell'Uomo, la seconda solleva il problema di chi debba avere in Israele il potere di sancire "la conversione" di una persona al Giudaismo.
Questo ultimo aspetto ha un importante risvolto di politica interna, soprattutto a seguito dell'imponente flusso migratorio di oltre un milione di immigrati dalla Russia cui Israele aprì le porte negli anni Novanta, per la necessità impellente di sostenere la propria difficile situazione demografica, minacciata dagli alti tassi di fertilità della popolazione araba-palestinese, che determina uno squilibrio numerico che mette a serio rischio il futuro stesso di Israele in quanto Stato ebraico.
Oggi oltre 320.000 immigrati di origine russa, pur avendo acquisito la cittadinanza israeliana, non possono sposarsi né essere seppelliti in Israele secondo i riti del Giudaismo ortodosso ed i loro figli, ragazzi spesso adolescenti sono, secondo lo stesso Rotem, una vera e propria "bomba ad orologeria" sociale per la difficoltà di integrarsi culturalmente nella società ebraica, alimentando fenomeni paradossali come quello della nascita nel paese di circoli neonazisti.
Tradizionalmente in Israele la conversione era affidata al cosiddetto Rabbinato Capo, una sorta di vertice ecclesiastico che riunisce le massime autorità religiose dei due principali indirizzi ortodossi del Giudaismo, sefardita e ashkenazita; alle loro cosiddette "corti di conversione" competeva la decisione sull'ammissibilità dei candidati - con particolare attenzione al fatto che il convertito fosse effettivamente pronto a rispettare e praticare i 613 mitzvòt, i precetti che regolano in ogni dettaglio la vita del fedele ebreo.
Nel 2004, il governo Sharon costituì delle commissioni congiunte nelle quali, oltre ai rappresentanti religiosi, erano presenti anche funzionari del Ministero degli Interni, non solo nella speranza di rendere più spedito il meccanismo, criticato anche per la lentezza delle sue decisioni, ma soprattutto per superare i contrasti in materia religiosa da tempo insorti con l'ebraismo riformato e con quello conservativo, movimenti religiosi sorti entrambi nel corso dell'Ottocento nel clima del modernismo religioso in Europa e negli Stati Uniti, cui appartengono la maggioranza degli Ebrei nord-americani, il cui ruolo è determinante in particolare per assicurare il sostegno degli Usa alla politica israeliana.
Da tempo infatti si era aperto un contenzioso fra i rabbinati ortodossi e la Corte Suprema israeliana che, consapevole dell'aspetto politico della questione, si era ripetutamente pronunciata, per esempio nel 1989 e nel 2002, a favore della piena legittimità religiosa degli orientamenti del Giudaismo riformato e conservativo.
Nello stesso tempo, come se il quadro non fosse già abbastanza complicato, è andata aumentando la pressione politico-religiosa degli ultra-ortodossi, i cosiddetti Haredim, i quali, come si sa, svolgono un ruolo fondamentale nell'ampliamento degli insediamenti ebraici a Gerusalemme e in Cisgiordania: essi sono oggi rappresentati anche nel governo Netanyahu e proprio il partito di David Rotam, Yisrael Beiteinu, è ad essi assai vicino, oltre ad essere espressione dell'immigrazione russa di cui si è detto.
La crescente pressione del fondamentalismo religioso ha portato nel 2008 addirittura al blocco dell'attività delle "corti di conversione" quando la Corte di appello rabbinica ha annullato, con valore retroattivo, tutte le conversioni attuate dalle corti coordinate dal rabbino Druckman, quelle cioè che operavano secondo la procedura disposta da Sharon nel 2004: in questo modo si è creata un'incredibile situazione di stallo politico-religioso, con gravi implicazioni per quelle decine di migliaia di potenziali nuovi ebrei, soprattutto russi, che attendono una legittimazione alla loro cittadinanza, questione fondamentale anche sul piano politico.
Il progetto di David Rotem cerca quindi di uscire da questa impasse, rafforzando il ruolo del supremo rabbinato giudaico: la scelta è stata infatti quella di affidare totalmente al Rabbinato l'autorità suprema sulle corti, incluso il potere di nominarne i giudici e di formarle anche a livello locale - eliminando quindi qualsiasi componente politica dalla procedura di conversione. "Ma il presupposto da cui parte Rotem - ha scritto il quotidiano Haaretz - è che il Rabbinato Capo non è interamente Haredi; esso comprende infatti anche rabbini sionisti religiosi e ortodossi modernisti e sono loro che opereranno le conversioni. La legge rende anche più difficile la revoca delle conversioni, stabilendo che le corti rabbiniche possano farlo solo previa approvazione dei capi rabbini. Gli Haredim, d'altra parte, sperano che il Rabbinato Capo eserciterà pressioni sui rabbini a livello locale affinché adottino standard più rigorosi nella conversione".
Questa posizione però ha scatenato una furiosa campagna da parte dei rabbini nord-americani che sono usciti allo scoperto anche sul piano politico, facendo inviare dai propri fedeli decine di migliaia di e-mail di protesta al primo ministro israeliano.
"Per favore, unitevi a me nello scrivere una email al primo ministro Netanyahu per chiedergli di fermare questo storico errore", ha scritto ad esempio il rabbino Jeremy Kalmanofsky della Congregazione Ansche Chesed nell'Upper West Side di New York. "Il Giudaismo e il popolo Ebreo non appartengono esclusivamente al più reazionario fra noi!".
Così, il rabbino David Schuck del Pelham Jewish Center di Westchester County, New York, ha dichiarato che la legge di conversione "è un affronto alla diaspora ebraica in particolare e, qualora fosse approvata, sarebbe un cedimento della maggioranza degli Ebrei israeliani ad una interpretazione fondamentalista del Giudaismo".
David Rotam, da parte sua, ha subito replicato senza mezzi termini ai capi dell'ebraismo riformato e conservativo: "Devono controllare i fatti prima di parlare. Si stanno comportando da idioti totali".
Il confronto è diventato dunque estremamente duro e questo è un fatto assai pericoloso per una ragione che è stata messa bene in evidenza, nel suo editoriale settimanale, da Davide Hotovitz, editorialista del Jerusalem Post: "ciò cui stiamo assistendo è un'esplosiva crisi globale sull'identità ebraica, un'enorme, disastrosa valanga che si sta per abbattere sulle relazioni fra Israele e la Diaspora".
La decisione di congelare tutto fino a gennaio si spiega quindi perfettamente alla luce di quanto ha dichiarato in una intervista il rabbino Shlomo Amar, capo del rabbinato sefardita di Israele, secondo cui Netanyahu gli ha detto di aver bisogno che gli Ebrei americani stiano dalla sua parte durante i negoziati con il presidente Obama sulla pace con i Palestinesi.
Se questa è la ragione immediata, per guadagnare tempo nella speranza di un onorevole compromesso, il problema della conversione rimane un problema estremamente serio per Israele, perché in un solo colpo porta al pettine i nodi fondamentali dell'attuale identità dello Stato ebraico: la fine del sogno sionista, la nascita di un fondamentalismo religioso estremista che ne condiziona da tempo la politica interna ed internazionale, le esigenze di condizionare dall'interno l'alleato americano attraverso le potenti lobby religiose e politiche ebraiche negli Usa, l'estensione degli insediamenti che prolungano l'occupazione militare della Cisgiordania, impedendo l'avvio di un serio processo di pace.
Ma la posta in gioco, riaprendo la questione del "Chi è ebreo?", riapre dall'interno di Israele la questione della stessa legittimità dello Stato ebraico. Non a caso, Sharansky, non appena posto a capo della commissione, di fronte al difficile compito di mediazione che lo attende, ha giustamente dichiarato che "nel momento in cui la legittimità di Israele è sempre più sotto attacco, il popolo ebraico ha bisogno di unità e la legittimità di tutte le tendenze è degna di riconoscimento".
Si tratta di vedere quale prezzo dovrà pagare lo Stato ebraico alla propria identità per salvare la propria legittimità: un dilemma epocale fra politica e religione che avrà sicuramente effetto anche fuori di Israele e che ricorda agli occidentali che il fondamentalismo religioso non è una prerogativa del solo mondo islamico.
di A. Terenzi
Fonte: http://www.clarissa.it/
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