4 luglio 2010

Afghanistan: un nuovo capitolo del "great game"

E’ un grande piacere, anzi è un’autentica soddisfazione, il tornar a leggere qualcosa di perfido e d’intelligente dopo il cumulo di odiose ipocrisie e di sciocchezze umanitarie che da anni siamo abituati a inghiottire a proposito dell’aggressione del 2001 all’Afhanistan, dell’occupazioni militare che le tenuta dietro e dei vantaggi economici e strategici che il governo statunitense e le lobbies internazionali sue complici in questo episodio di pirateria internazionale intendono ricavarne.

Abbiamo ormai capito da tempo, perfino nella disinformatissima Italia, che la lotta al “terrorismo di al-Qaeda” non c’entra da tempo piu nulla (se mai c’è davvero entrata); che il governo collaborazionista di Hamid Karzai – che nessuno nel paese ha mai preso sul serio – controlla da anni solo Kabul e dintorni e si sostiene solo grazie alle truppe straniere d’occupazione (le italiane ohimè comprese); che in alcune province i talibani sono tornati a controllare la situazione più forti di prima mentre, in altre, a comandare sono le forze tribali e i “Signori della Guerra”; e che con gli uni e con gli altri gli occupanti mantengono relazioni che definire ambigue e molto ottimistico. Non è ancora facile capire se, occupando prima Afghanistan e poi Iraq, l’infausto governo Bush intendesse o meno distruggere – forse irreversibilmente – quelle due compagini statali e gettare entrambi i paesi nel disordine e nella guerra civile strisciante e cronica: certo ciò è quanto è avvenuto, e non è per nulla detto che le amministrazioni statunitensi (la bushista prima, l’obamista poi) l’abbiano considerato e lo considerino del tutto un insuccesso. Il proseguimento e forse il complicarsi delle due campagne militari produra sì qualche smacco politico e diplomatico, ma procede con soddisfazione sia delle corporations produttrici di armi, sia del Pentagono che in qualche modo resta protagonista anche politico oltreché strategico e continua a studiare gli scenari delle aree occupate e dei loro confini, sia dei titolari del business della “ricostruzione” e della distribuzione dei proventi relativi all’ampio e vario sfruttamento del sottosuolo, sia dei disoccupati e dei sottoproletari che si arruolano ottenendo buoni ingaggi o che vanno a fare i contractors: un gran bel mercato di prestazione d’opera mercenaria.

Ciò non vuol dire che sian tutte rose e fiori: al contrario. La situazione politica è disastrosa, i prestigio del presidente Obama e il consenso che ne dipende stanno paurosamente calando, la gente ha una ben giustificata paura di un nuovo Vietnam. Quello vecchio, era popolato da miti e pacifici contadini: gli errori e la ferocia degli americani trasformarono quel popolo di timidi agricoltori in un esercito di eroi. Ma la storia sembra aver insegnato ben poco ai governanti della Prima Democrazia del mondo: i quali dal 2001 sono andati proprio a incappare, con la loro politica aggressiva, nei piu forti, abili e feroci guerrieri del mondo. Con gli afghani, negli ultimi duemilacinquecento anni, non ce l’ha mai fatta nessuno: né i persiani, né Alessandro Magno, né Genghiz Khan, né il Gran Moghul, né l’esercito dello zar, né Sua maestà Britannica, né l’Armata Rossa. Nonostante le sue terribili armi di distruzione e l’alto prezzo che stanno facendo pagare alla popolazione civile, non ce la faranno nemmeno gli americani e i loro complici.

L’Afghanistan è dall’Ottocento al centro della contesa internazionale per il controllo dell’Asia centrale, quella che gli inglesi chiamavano Great Game, “Grande Gioco”. Ma nelle ultime settimane, qualcosa è profondamente cambiato. La posizione dello screditato governo Karzai e diventata insostenibile; il generale Mac Chrystal, sostenuto dai “neoconservatori” che padroneggiavano al tempo di Bush, si è sentito franare il terreno sotto i piedi e ha deciso che, rovina per rovina, era meglio trascinare governo e Pentagono nel discredito finendo in bellezza con un feroce attacco frontale ad Obama e al suo intero establishment; frattanto però (guarda caso…), sono filtrate le notizie riguardanti le straordinarie ricchezze “di recente” individuate nel sottosuolo afghano.

Straordinarie ricchezze. Guarda, guarda… In realtà se ne sussurrava da tempo, addirittura da prima dell’aggressione dell’ottobre del 2001. Anche il governo talibano, in antiche trattative gia con il governo Clinton per il petrolio (la Unocal californiana, ma poi anche la Chevron legata a Condoleeza Rice e quindi l’onnipotente Halliburton del bieco Dick Cheney), sapeva qualcosa al riguardo e lo aveva già ventilato un pò in giro.

Clinton confidava ancora nei suoi prestigiosi consiglieri della “scuola realista”, come Henry Kissinger e Zbizniew Bzrezinski, infaticabili tessitori di tele geopolitiche e diplomatiche, ben consci che il mondo fosse ormai “fuori controllo” (è il titolo di un best seller d Bzrezinski) e che ci is dovesse muovere “navigando a vista” e scegliendo con cura diplomatica alleati e compagni di strada. Ma il “cambio della guardia” del 2000 spazzò via i politici temporeggiatori sostituendoli con gli sfasciacarrozze neoconservatori e con il loro Project for a New American Century: basta – si disse con piglio quasi trotzkista (molti neocons vengono da li…) con la dotta e prudente considerazione della realtà politica mondiale: noi non dobbiamo contemplare il mondo, vogliamo cambiarlo. Nell’interesse dell’America e del suo Destino Manifesto, ovviamente. Il resto, lo conosciamo.

Ed ecco, dopo troppi anni di stolida brutalità, il ritorno della perfida intelligenza. Lo abbiamo letto proprio nell’articolo di fondo pubblicato il 26 scorso da “Il Sole-24 Ore” a firma – nientemeno – che di Henry Kissinger, e dal titolo Ombra Vietnam sull’Afghanistan. Che sollievo il ritorno della Vecchia Volpe, dopo anni passati a subire le stupidaggini di Rumsfeld, le carognate di Wolfowitz, le noiose machiavellerie dei Ledeen, dei Kagan e dei Pearle che ci avevano ridotti perfino a rimpiangere Luttawk!

Certo, lo stesso Kissinger forse non è proprio al meglio nemmeno lui. Il suo giudizio storico di fondo (“L’Afghanistan non è mai stato pacificato dalle forze straniere”) è generico e appannato; le sue affermazioni del tipo “l’Afghnistan è una nazione, non uno stato nel senso convenzionale del termine”, per essere accettate, andrebbero rovesciate di centottanta gradi. Se c’è una cosa che l’Afghanistan non è mai stato né ha mai preteso di essere, è proprio una nazione.

Ma, per il resto, la Vecchia Volpe coglie bene il centro del problema. Il popolo americano esige l’uscita dal pantano afghano non meno che da quello irakeno: esso teme soprattutto la vietnamizzazione dei due scenari. Benissimo: tanto più che ritirare le truppe regolari statunitensi e alleate non è un problema (o qualcuno pensa che si dovrebbe consultare Frattini, o magari La Russa?). L’importante è, dice quasi apertamente Kissinger – un minimo d’implicito rientra nel fair play) – che si facciano patti chiari con le forze locali, regione per regione: con i talibani, con i Signori della guerra, con i gruppi delle minoranze etniche. L’obiettivo importante è organizzarsi per sfruttare il sottosuolo, non mollare la presa sulle valli dalle quali dovrebbero passare oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale verso il Pakistan, gestire area per area i rapporti con i confinanti: con i paesi ancora legati alla Russia a nord, con la Cina ad est, con Pakistan e India a sudest, e badare allo scomodo vicino sudoccidentale, l’Iran (e qui l’abitudine a mentire riprende il sopravento: “un Iran bellicoso, impegnato a sviluppare la bomba atomica”).

Ed ecco allora la ricetta Kissinger: non accelerare il ritiro dall’Afghanistan, ma dotarlo di solide istituzioni statali e militari (magari, ma questo non e detto con chiarezza, con una bella riforma federale che esautori definitivamente il centro e affidi il governo concreto alle singole forze periferiche, secondo i casi e le opportunita); collegarsi bene a queste forze locali, indirizzarle, gestirle, associarsele. Per questo, un team i buoni “consiglieri” dei servizi, i tecnici delle lobbies e alcuni specialisti contractors, ben distribuiti sul territorio e in contatto con i notabili locali e i capitribù, saranno sufficienti; e Karzai sarà presto scaricato.

Abile, perfido, spregiudicato. E tanto chiaro da non prendersi neppure la pena di camuffare il cinismo del disegno indicato. Infatti, Kissinger non esita a citare il “precedente europeo”: l’indipendenza del Belgio, che nel 1830 le grandi potenze del vecchio continente vollero come “via d’accesso da e verso l’Europa e una testa di ponte per il controllo delle rotte marittime dell’Atlantico settentrionale”. Il Belgio, sottraendo il quale all’Olanda con la scusa del cattolicesimo di fiamminghi e valloni (e lasciando perdere la loro eterogeneità), Inghilterra, Prussia e Francia semplificavano a loro vantaggio il quadro politico-economico del nordovest europeo. Ovviamente, allora si penso a una “neutralità permanente per il nuovo stato”. Accordiamoci alla stessa maniera, consiglia Kissinger, con russi, cinesi e magari indiani. Il momento è propizio, ora che Mosca e Pechino sembrano aver “scaricato” l’Iran. Risolviamo il nuovo “Grande Gioco” centroasiatico promettendo alle potenze concorrenti qualche fettina della torta afghana, tropo indigesta per la sola superpotenza. I diritti dei popoli andranno ancora una volta a farsi benedire: ma questo non è grave. La rapina delle ricchezze afghane procederà più spedita e le potenze confinanti, essendovi cointeressate, non disturberanno più il disegno statunitense che dal canto suo sarà in una qualche misura ridimensionato. Si tratta di una proposta ispirata al “multilateralismo” caro ad Obama. Dopo la brutalità gorillesca di Bush, salutiamo con gioia il ritorno alla brutalità serpentina della geopolitica e della diplomazia. Il fine è sempre e comunque la sopraffazione e la rapina: ma, certo, somiglia di più alla politica.

Franco Cardini, 28/06/2010


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