30 luglio 2010

LA CRISI GLOBALE CONTINUA

 di O. Pesce
Dopo l'esplosione di una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico, la British Petroleum (una delle storiche Sette sorelle) ha provato tutte le  “strategie” per recuperare il petrolio in barba ai dilaganti danni ambientali e  infarcendo di promesse di rimborso tutti i suoi comunicati, mentre il presidente USA si è trovato a doverla rincorrere e minacciare senza ottenere  nulla e subendo un vistoso calo di popolarità. 
Sia il G8 che il G20 si sono conclusi con un nulla di fatto: gli aiuti ai  paesi poveri sono sempre più ridotti di quanto promesso, la politica di contenimento della crisi sbanda tra le proposte di Obama – indebitarsi per  sostenere la produzione – e quelle tedesche – stringere i cordoni delle finanze pubbliche. I tentativi di tassare la finanza speculativa sono destinati al fallimento. Tra i paesi emergenti c'è una concorrenza sempre più forte per conquistare  spazi nei mercati globalizzati, ma con il calo dei consumi nelle economie avanzate e l'ulteriore impoverimento dei paesi poveri ci sono segnali che si  possa giungere a una crisi di sovra produzione. In Europa la crisi colpisce sempre più duramente le strutture produttive e  l'occupazione, mentre i governi sono impegnati in manovre per tenere sotto  controllo i debiti pubblici, per cercare di contenere i danni provocati dai  poteri finanziari (banche, borse, società finanziarie, fondi, agenzie di  rating) che stanno speculando con un certo successo contro l'euro e contro i  paesi più indebitati e deboli dell'Unione Europea e dell'area euro: i  cosiddetti PIGS (Portogallo Irlanda Grecia Spagna). I prestiti si limitano a rinviare i problemi senza risolverli.
Nel frattempo il capitale industriale pensa ancora alle delocalizzazioni (vedi Fiat/Serbia) come soluzione dei suoi “problemi”, senza “vedere” che proprio esse sono state una delle cause principali del fallimento degli USA.
 La debolezza dell'Unione è  evidente, tanto più che ogni paese cerca di uscire dalla crisi da solo; questa  è la vecchia logica del ciascuno per sé, che mantiene l'Europa priva di una  sua  politica indebolendola sempre più. Cosa succederà all'euro, e al potenziale  mercato unico europeo? Da questo quadro si conferma (se ce ne fosse bisogno) che la politica non  riesce a dare regole e limiti al capitale globalizzato: né alla finanza  speculativa né alle multinazionali. Affidare ai soli meccanismi di mercato i riequilibri tra le varie aree dell’Unione e nella politica economica restrittiva e deflazionista dei paesi in sistematico avanzo commerciale non porta soluzioni.
Gli stati sono troppo deboli, ma i  potenziali blocchi continentali, che potrebbero più seriamente regolare il  prepotente dominio del capitale finanziario, sono ancora in gestazione; del  resto gli stati si sono formati e consolidati nel corso di secoli, unità  continentali più ampie si formeranno in varie decine di anni almeno.  La crisi globale continua, e investirà ancora altri paesi anche importanti: in  Giappone, per dichiarazione del suo primo ministro, il debito pubblico quest'anno è pari al 218% del PIL (in Italia, il rapporto debito pubblico – PIL  è del 112%).
Dopo il crollo del bipolarismo USA – URSS la globalizzazione ha avuto campo  libero, tutti i paesi l'appoggiano, non possono fare a meno di mantenere gli  accordi che la alimentano (per es. il WTO), e contemporaneamente entro quel  quadro si scontrano (per es. USA e Cina sulla rivalutazione dello yuan). Non  esiste più il bipolarismo, non è riuscita ad affermarsi l'egemonia USA, non c'è  ancora un reale multipolarismo. I tentativi di resistere alla globalizzazione in America Latina vanno visti  positivamente, e devono incoraggiare l'Europa a non rinunciare al
suo sviluppo  autonomo, in grado di controbilanciare il persistente potere degli USA (basato  sulla supremazia militare): la via d'uscita dalla crisi globale passa per il  multipolarismo. Chi detiene il potere finanziario e i monopoli industriali ha il potere reale,  non è più identificabile con precisione (può avere una nazionalità teorica,  quella della sede legale, ma di fatto manovra un groviglio di interessi  internazionali). La massa di capitali che si sposta speculativamente da un  paese all'altro, da un continente all'altro, da un ramo d'industria o di  servizi a un altro, da una borsa o banca a un'altra (e decide dove e come  colpire, oppure investire, secondo le analisi delle sue fondazioni e università) è ormai sproporzionata rispetto alla ricchezza materiale realmente  prodotta nel mondo (si ipotizza sia circa cinque volte il PIL mondiale). Si  tratta di una  bolla speculativa gigantesca, che prima o poi è destinata a scoppiare - perché  ipoteca la produzione futura e mette in circolo debiti che non possono essere  pagati (futures e derivati) - ma che nessuna legge nazionale e nessuna  deliberazione del G8 o G20 può fermare. E' cambiata la società, ed è cambiata la cultura, cioè sono cambiate le  motivazioni che le società si danno per la propria esistenza: il liberalismo prevale sulla solidarietà. E' cambiato il modo di lavorare, sono cambiati  l'individuo e la famiglia, non c'è più coesione e la solidarietà, così come la  coscienza della propria appartenenza sociale, quando c'è è più enunciata che  effettiva, c'è la protesta e non la lotta. La situazione è estremamente pericolosa, perché né governi né opposizioni  hanno un orientamento; bisogna uscire dalle idee abitudinarie, occorre creare  un tracciato, una visione del futuro che nasca da un bilancio di come si è  arrivati a questo. Non basta più rivendicare l'indipendenza nazionale, occorre  una visione più ampia, che lavori per un mondo multipolare. Occorre un nuovo modello di sviluppo, basato sulla produzione reale e sulla  difesa delle risorse naturali, occorre trasformare la protesta in lotta  efficace, coalizzando contro il capitale finanziario globalizzato i settori della società che oggi ne sono dominati e schiacciati. Per raggiungere questo  obiettivo dobbiamo fare scelte nella giusta direzione: i tagli possono al  momento ridurre il debito pubblico, ma restringono i consumi e minano la  produttività, mentre bisogna difendere le fabbriche e il lavoro esistenti, dare alternative e futuro ai disoccupati e ai giovani, sviluppare investimenti e  ricerca sui nuovi materiali e le nuove tecnologie e sulle fonti di energia  rinnovabili, per creare un'economia avanzata, ecosostenibile, attenta al  benessere dei cittadini.
E’ necessario lottare per impedire che si introducano ulteriori contratti di lavoro precari e la privatizzazione dei servizi pubblici.
Occorre riprendere la produzione pubblica di beni collettivi.
Per contrastare la deflazione  impedire il tracollo dei salari, opporsi ai licenziamenti e preservare le norme a tutela del lavoro.


Fonte: http://conflittiestrategie.splinder.com

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