Oggi, le tradizionali lotte e rivendicazioni sono, consapevolmente per chi le gestisce e inconsapevolmente per chi non ne conosce gli obiettivi, pure maschere per nascondere e distogliere la vera posta in gioco del cambiamento possibile. Gli stati esercitano le loro funzioni come e meglio di sempre, la globalizzazione non significa affatto che un governo sopranazionale ha reso gli stati inutili o marginali; piuttosto gli stati hanno adottato una tecnica a schermata, capace di rendere possibili politiche sociali ed economiche altrimenti gravose da far digerire e, soprattutto funzionali alla strategia politica imperialistica degli Usa.
Quello che sta avvenendo oggi, nel 2010, a livello economico è la conseguenza di determinate scelte politiche nazionali che dovrebbe indurci a riconsiderare alcune categorie del politico troppo a lungo ritenute marginali e che invece sono il cuore del problema.Chiaramente la mancanza di una forza politica anticapitalista e antimperialista matura a livello di complessità filosofico-marxista in funzione politco-comunista rende il quadro delle posizioni sociali incerto e in continua fibrillazione. Sicuramente la scossa economica che dovrà ancora venire spazzerà via alcune incrostazioni, certezze e anche incertezze. Chi avrà prodotto a livello teorico la strada per un definitivo cambio di paradigma non è detto che saprà farne tesoro, ma almeno avrà qualche robusta tutela nel parare i colpi.
Nel 1983, in seguito agli impegni presi con il Fondo Monetario Internazionale, fu approvato dal governo federale yugoslavo il famigerato “programma di stabilizzazione economica” (una formuletta che conosciamo benissimo) che avrebbe dovuto portare al pieno funzionamento delle leggi di mercato. Esso prevedeva l’abolizione parziale (per due anni), e poi totale, del fondo di solidarietà con il quale a fine anno venivano socializzate le perdite delle imprese che presentavano un bilancio negativo. La conseguenza di queste previsioni fu la definitiva chiusura di queste imprese e l’ulteriore immiserimento (se ce ne fosse stato bisogno) delle regione più povere, come ad esempio il Kosovo.
Questo piano evidentemente aveva una strategia geopolitica precisa.
La disoccupazione arrivò a toccare il milione di persone. Attraverso il debito pubblico vennero anche imposte condizioni di riforma istituzionale. Quando gli organismi internazionali chiedono riforme ai paesi debitori bisogna chiamarle sottomissioni. Ma vediamo in che modo il governo centrale fu visto come la causa di tutti i mali dai singoli stati che lo componevano.
Nel 1983 l’F.M.I chiese ed ottenne (e come non poteva ottenere!) che fosse il governo centrale a rispondere del debito contratto singolarmente (secondo il modello dell’autogestione), aumentando, di fatto, la centralizzazione e il decisionismo del governo federale.
Il parlamento yugoslavo, per costituzione, poteva approvare provvedimenti solamente all’unanimità. Nel caso del programma antinflazione approvato nel 1987 fu richiesta l’approvazione a maggioranza. Questo perché l’opposizione delle regioni più ricche (Slovenia e Croazia) non permetteva l’approvazione del programma antinflazione al quale il governo federale si era già vincolato nei confronti del F.M.I. in cambio di una riduzione del debito. Il programma prevedeva il blocco dei salari e l’aumento dei costi di elettricità, ferrovie, benzina, servizi postali e prodotti di prima necessità. L’inflazione che nel 1980 era al più 69%, nel 1989 (con i suggerimenti del F.M.I) arrivò al più 346%. Inutile dire che con queste misure economiche la Yugoslavia non trasse profitto dall’export, che anzi diventò una vera e propria rapina da parte dei paesi occidentali creditori: nel 1987 il 50% degli utili dall’export venne assorbito dal debito estero.
Dal 1982 si tennero scioperi e proteste. La situazione si faceva sempre più esplosiva. Le persone perdevano il lavoro a decine di migliaia, fino a quando non si formò una classe politica di tipo leghista, nazionalista e razzista, la quale non poteva che favorire lo smembramento della Yuogoslavia. Il terreno era stato preparato scientemente a tavolino dalla strategia imperialistica Usa, comprovata dalle potenze occidentali. Quando venne prospettato alle regioni più ricche della Yugoslavia la possibilità di uscire dalla crisi se si fossero rese indipendenti, il gioco era fatto.
La situazione yugoslava ci dovrebbe indurre a ragionare su quale siano le posizioni politiche che si celano dietro quelle economiche. Ad esempio quando nel 1988 il governo italiano, attraverso il ministro Goria, offrì 508 miliardi di lire in cambio dell’assicurazione, da parte yugoslava, di riforme istituzionali ed economiche, il suo obiettivo era puramente politico, con la strategia di penetrare in territorio yugoslavo attraverso la contemplazione della doppia cittadinanza per i cittadini italiani. Gli screzi tra il governo italiano e la Slovenia e la Croazia avvennero proprio dal rifiuto di queste repubbliche di siglare il “memorandum per la tutela della comunità nazionale italiana” siglato il 31 dicembre 1991 dall’Unione italiana in Yugoslavia.
Quando si parla di riforme bisogna sempre domandarsi quale obiettivi politici si celano dietro. Il sacrificio economico che si chiede a una nazione non è una pretesa economica ma un obiettivo puramente politico da parte del paese creditore. Nel momento stesso che la nazione debitrice accetta il finanziamento e non ha più la libertà di esercitare la propria strategia a livello nazionale e internazionale per rientrare del debito contratto, perde la propria indipendenza politica.
Il caso della Yugoslavia ci mostra in che modo si possa esercitare un obiettivo politico particolare attraverso delle imposizioni economiche ben mirate.
di Stefano Moracchi
Leggo sempre con interesse le analisi del filosofo Moracchi e vorrei anche esprimergli piena solidarietà per il vergognoso attacco che lo scrittore Evangelisti gli ha inferto, rivelandosi un servo del potere.
RispondiEliminaValerio Del Prente.