Bonanni, il segretario generale della CISL, nella trasmissione di Lucia Annunziata "In ½ ora", ha sostenuto che l’investimento Fiat a Pomigliano darà lavoro per vent’anni. E noi dovremmo crederci?
Ma come si fa, in una situazione mondiale in pieno movimento, a fare affermazioni così impegnative?
Il punto è che la crisi dell’auto è un fatto nuovo che viene affrontato con strumenti vecchi. Una crisi globale in una competizione globale, che viene affrontata con gli strumenti delle competizione multidomestica. Ma cerchiamo di capire qualcosa, riandando a quelle che sono le ragioni che hanno suggerito alla Fiat di investire a Pomigliano.
E allora perché la Fiat viene ad investire in Italia?
In assenza di incentivi di una politica industriale di settore, quali sono le convenienze economiche e la contropartita statale per il gruppo torinese?
La Fiat ha scelto di produrre la Panda in Italia perché:
a) in Polonia non aveva un mercato di sbocco, e del resto quale macchina possono comprare i polacchi con 350 euro al mese?
b) in Italia la Fiat produce meno di quello che vende, e cosi la Fiat ha deciso di coprire questo buco, ed ha programmato di portare la produzione di automobili in Italia da 650.000 del 2009 ad 1,4 milione nel 2014.
c) Pomigliano è uno stabilimento tecnologicamente avanzato ed è collocato vicino ai mercati emergenti nel mediterraneo: Africa, paesi arabi.
Bisognava comunque superare il gap di produttività, e soprattutto avere condizioni di sicurezza rispetto al rischio della conflittualità. Di qui un ipotesi di accordo incentrata su un aumento della produttività, la sospensione dello sciopero nella fase attuativa del contratto e la conseguente restrizione dei diritti sindacali.
Ma come si colloca questa linea strategica nel quadro della competizione globale?
Per la Fiat la concorrenza globale ha un solo significato: la riduzione dei diritti dei lavoratori in funzione dell’aumento della produttività, e della libertà d’impresa verso gli operai.
Questa è un’impostazione che si scontra con la logica e i meccanismi della competizione globale. La riduzione del costo del lavoro era un fattore competitivo decisivo in un’economia multidomestica, ma non in un economia globale dove il fattore competitivo è la valorizzazione della forza lavoro, e quindi delle sue condizioni economiche e dei suoi diritti.L’aumento della produttività è compatibile con la globalizzazione per la necessità dell’uso ottimale delle risorse, ma non è compatibile, se diventa l’unico elemento su cui far leva.
In un mercato dove i livelli di produttività sono al top, non si può pensare di vincere accorciando un poco le distanze rispetto alla concorrenza. Si devono cercare altre strade.
Prima si vinceva sul mercato se si produceva a costi minori, oggi si vince se si fa un prodotto migliore degli altri o un prodotto nuovo. La Fiat vince se fa la macchina elettrica o la macchina all’idrogeno, sopravvive se fa una macchina che costa di meno. Sopravvive fino a quando un’altra industria automobilistica non sforna una macchina elettrica che sbaraglia il mercato. In tale contesto l’uomo e l’intelligenza hanno maggior valore aggiunto rispetto ai macchinari, e così anche l’investimento nella ricerca.
Il fatto è che la Fiat è un sistema industriale emblematico del paese, che taglia i costi, ma non investe in ricerca e qualità. Angela Merkel ha fatto una manovra di 80 miliardi di euro non ha intaccato gli investimenti nella ricerca.
E’ vero, non si possono tollerare sprechi e abusi di diritti, ma evitare gli abusi dei diritti non significa eliminare i diritti stessi, specie se il trend dei mercati asiatici, presi a modello per la riduzione del costo del lavoro, è proiettato verso la conquista dei diritti del lavoro occidentali, e la Cina è sempre meno un’opportunità e sempre più un rischio.
Il modello cinese sta cambiando, anche sulla scia della raccomandazione dell’ultimo G20: “Per riequilibrare la domanda globale, le economie che hanno attivi commerciali con l’estero sono chiamati a favorire la crescita interna”. I consumatori medi, indiani, brasiliani, cinesi sostituiranno gradualmente il consumatore americano come motore propulsore dell’economia mondiale. La Cina cerca di sostenere la crescita del PIL nazionale anche attraverso la valorizzazione della risorsa lavoro come fattore competitivo. L’obiettivo della Cina è rendere i suoi operai dei consumatori, e per questo sta cambiando la legislazione del welfare, e favorisce le rivendicazioni degli operai verso le multinazionali straniere. I legislatori cinesi, in questi ultimi tempi, hanno introdotto importanti novità, come contrattazione collettiva, salari minimi ed indennità di buona uscita. E sul piano dei livelli salariali, gli operai scioperano ed ottengono risultati anche perché le multinazionali puntano sul mix di salari ancora convenienti rispetto alla concorrenza, anche se in aumento, e qualità del lavoro. Con gli ultimi accordi gli operai della Honda hanno ottenuto il raddoppio dei salari medi, quelli della Foxconn aumenti del 24% e 32%.
Fenomeni di delocalizzazione si sono verificati anche in Cina. La Apple ha delocalizzato parte della produzione in Vietnam. Ancora per poco tempo la Cina sarà modello di bassi salari e di diritti sociali negati, e quindi strumento di ricatto. La Cina da questo punto di vista non è un’opportunità, ma un rischio, il rischio di trovare in Asia una forza lavoro in ascesa.
Da quanto detto emergono, sullo scenario mondiale, due visioni contrapposte:
- per la Fiat utilizzo contigente (fin che dura) del margine competitivo qualità del lavoro e utilizzo strutturale dello sfruttamento intensivo dello stesso (bassi salari e pochi diritti)
- per la concorrenza utilizzo contigente del margine competitivo dello sfruttamento intensivo del lavoro (bassi salari e pochi diritti), e utilizzo strutturale della qualità del lavoro.
Se così stanno le cose, è sostenibile che l’investimento Fiat a Pomigliano duri ventanni?
Fonte: http://www.agoravox.it
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