Raúl Zibechi, analista internazionale, mette in parallelo i movimenti indigeni ecuadoriani e boliviani, spiegando i perché della rottura con i rispettivi governi e svelandone la reale meta finale
I processi politici e sociali in Ecuador e in Boliviasono come due gocce d'acqua. Entrambi hanno approvato uno Stato Plurinazionale e nuove costituzioni, ma al momento di applicarle incontrano forti ostacoli. Sono le basi sociali indigene e i settori popolari urbani, che hanno dato il governo a Evo Morales e a Rafael Correa, coloro che stanno opponendo resistenza ai loro stessi governi. In entrambi i casi, i governi hanno optato per l'estrazione mineraria e petrolifera per assicurarsi entrate fiscali, invece di puntare verso il Buen Vivir come promesso."
I processi politici e sociali in Ecuador e in Boliviasono come due gocce d'acqua. Entrambi hanno approvato uno Stato Plurinazionale e nuove costituzioni, ma al momento di applicarle incontrano forti ostacoli. Sono le basi sociali indigene e i settori popolari urbani, che hanno dato il governo a Evo Morales e a Rafael Correa, coloro che stanno opponendo resistenza ai loro stessi governi. In entrambi i casi, i governi hanno optato per l'estrazione mineraria e petrolifera per assicurarsi entrate fiscali, invece di puntare verso il Buen Vivir come promesso."
Raúl Zibechi, analista internazionale del settimanale Brecha di Montevideo, docente e ricercatore sui movimenti sociali alla Multiversidad Franciscana de América Latina, ha pubblicato una dettagliata analisi sui movimenti indigeni in Ecuador, mettendoli in parallelo con le questioni boliviane. In entrambi i paesi, presidenti arrivati al potere grazie al sostegno dei nativi, vedono i rapporti con i loro principali sostenitori incrinarsi inesorabilmente. La causa: una visione differente di come applicare le nuove leggi alla realtà. Contattato da PeaceReporter, Zibechi non solo ha ribadito quanto già espresso e pubblicato da Programa de las Américas, sul quale scrive mensilmente, ma si è spinto anche più in là, ipotizzando dove queste marce indigene che in passato hanno messo in ginocchio il neoliberalismo e fatto cadere un governo dietro l'altro, si spingeranno.
Bolivia. La Fejuve, Federación de Juntas Vecinales de El Alto, una delle più importanti del paese, ha emesso un documento molto duro, il Manifesto politico del XVI Congresso ordinario. Dice che "nonostante abbia un presidente indigeno com'è Evo Morales, lo Stato continua a essere governato dall'oligarchia creola", dato che "continua a mantenere il sistema economico capitalista e il sistema politico neoliberale". Assicura che il popolo povero continua a essere "dominato politicamente", "sfruttato economicamente" e "emarginato a livello razziale e culturale". Ancora più grave: "Il governo del Mas, dopo aver assunto il comando, ha soltanto usato i popoli indigeni e i settori popolari per le sue campagne politiche, che invece continuano a venir tagliati fuori dalle decisioni politiche e il governo li usa solo per legittimarsi e restare al potere". Inoltre esige che il governo non si intrometta nelle organizzazioni sociali, che ci sia un cambiamento nel modo di agire del vicepresidente Alvaro García Linera e del suo entourage, che definisce: nemici della classe contadina e indigena", e appoggia la marcia dei popoli d'oriente.
Il tono e il contenuto sono molto forti. La Fejuve non è un'organizzazione qualsiasi, bensì una delle protagoniste della Guerra del Gas, nell'ottobre 2003, che ha provocato la caduta di Gonzalo Sánchez de Lozada e affondato il neoliberalismo. E ora sta valutando di chiedere le dimissioni di Evo.
In Ecuador, la Conaie è altrettanto importante, è stata la protagonista di una decina di rivolte a partire dal 1990, che hanno fatto cadere tre governi. Una rottura con queste organizzazioni è molto grave per qualsiasi governo, figurarsi per quei governi appoggiati da loro.
Bolivia. La Fejuve, Federación de Juntas Vecinales de El Alto, una delle più importanti del paese, ha emesso un documento molto duro, il Manifesto politico del XVI Congresso ordinario. Dice che "nonostante abbia un presidente indigeno com'è Evo Morales, lo Stato continua a essere governato dall'oligarchia creola", dato che "continua a mantenere il sistema economico capitalista e il sistema politico neoliberale". Assicura che il popolo povero continua a essere "dominato politicamente", "sfruttato economicamente" e "emarginato a livello razziale e culturale". Ancora più grave: "Il governo del Mas, dopo aver assunto il comando, ha soltanto usato i popoli indigeni e i settori popolari per le sue campagne politiche, che invece continuano a venir tagliati fuori dalle decisioni politiche e il governo li usa solo per legittimarsi e restare al potere". Inoltre esige che il governo non si intrometta nelle organizzazioni sociali, che ci sia un cambiamento nel modo di agire del vicepresidente Alvaro García Linera e del suo entourage, che definisce: nemici della classe contadina e indigena", e appoggia la marcia dei popoli d'oriente.
Il tono e il contenuto sono molto forti. La Fejuve non è un'organizzazione qualsiasi, bensì una delle protagoniste della Guerra del Gas, nell'ottobre 2003, che ha provocato la caduta di Gonzalo Sánchez de Lozada e affondato il neoliberalismo. E ora sta valutando di chiedere le dimissioni di Evo.
In Ecuador, la Conaie è altrettanto importante, è stata la protagonista di una decina di rivolte a partire dal 1990, che hanno fatto cadere tre governi. Una rottura con queste organizzazioni è molto grave per qualsiasi governo, figurarsi per quei governi appoggiati da loro.
Di base, stanno nascendo le prime crepe nello Stato Plurinazionale, un edificio che ancora non è stato finito di costruire. "Perché queste crepe?" Perché c'è una grande guerra di potere, dato che i popoli originari non hanno motivo di accettare la cornice dello Stato-nazione, struttura che sottostà allo Stato Plurinazionale. Su questo punto ci sono due visioni che tentano di rendicontare i processi in atto.
Prima visione. Alberto Acosta, economista ecuadoriano ed ex presidente della Costituente, pensa che sia necessario il processo di approvare leggi il cui testo si confaccia con la vita quotidiana. Se questo non si farà, la Costituzione anche la più avanzata resterà lettera morta. Il problema è che il presidente Correa crede che le leggi sull'acqua e sulla comunicazione non siano importanti. E per Acosta questo è come dire che "la Costituzione non è fondamentale né prioritaria". Si chiede: "Sarà un caso che la Costituzione comincia a convertirsi in una camicia di forza per il presidente Correa?".
Crede che l'opposizione di destra, che si è opposta alla Costituzione, stia ostacolando ogni legge per impedire qualsiasi avanzamento. Dall'altro lato, "il modo di governare di Correa, che essenzialmente è un leader prepotente, non lascia spazio al dibattito". La conclusione è che la Costituzione che andava a rifondare il paese, "è legata a un modus operandi politico che non le garantisce di entrare pienamente in vigore". La società non la difende, ma da parte del governo "c'è una specie di controrivoluzione legale".
Seconda visione. Lo scrittore e filosofo boliviano Rafael Bautista ritiene che rifondare lo Stato in Bolivia senza potenziare le nazioni originarie significa non cambiare nulla o fare "pura cosmesi". E se non ci sarà rifondazione, ovvero decolonizzazione, "ciò che accadrà sarà una mera ricomposizione del carattere signorile dello Stato". Alla fine dei conti, si sta tendendo a perpetuare nello Stato plurinazionale quello stato coloniale costruito sulla credenza della superiorità sugli indigeni, che sostanzialmente non ha subìto modifiche.
Bautista dice che "il cambiamento già non consiste in una trasformazione dei contenuti del nuovo Stato", bensì "nell'adeguare il plurinazionale alle necessità funzionali dell'istituzione statale". E questo è esattamente quello che rivela la marcia, scaturita dal sentimento di superiorità sugli indigeni mostrata dal governo quando ha detto che questi sono manipolati, non agiscono per loro stessi, ma perché spinti dalle Ong internazionali. Un modo di fare che dimostra come lo Stato non riesca a smettere di essere in alto e nel centro. Non riesca a mettersi alla pari.
L'essenza del plurinazionale passa per un ampliamento dell'ambito decisionale, un ampliamento del potere. "Il plurinazionale non vuol dire la somma quantitativa degli attori, bensì il modo qualitativo di prendere le decisioni: siamo effettivamente plurali quando ampliamo l'ambito della decisione". E questo è quanto non succede, per questo Bautista dice che il governo attuale "comanda comandando, non comanda obbedendo".
Il governo non cede potere ai popoli originari, si limita a decentrarli fra governi locali e comuni, ovvero riproduce la logica dei privilegi, dato che da sempre, dai tempi della Colonia, questi sono gli spazzi delle elite locali. La marcia è la dimostrazione che è in atto una rinuncia a trasformare lo Stato, preferendo limitarsi a migliorare la sua performance. E questo comporta "l'attualizzazione della parodia signorile", conclude Bautista. La marcia indigena non fa altro che mostrare la nudità della proclamata decolonizzazione dello Stato.
I popoli originari, che hanno creato le nuove condizioni per la loro libertà,non continueranno a tollerare l'emarginazione politica. Sanno che gli Stati devono sfruttare le risorse naturali per pagare i conti. Ma sanno anche chequesta logica li condurrà alla distruzione. Per questo si sono messi inmarcia: perché ebbero la forza per frenare il neoliberalismo e ora non vogliono perdere l'opportunità.
E non si può generalizzare sulla meta di questa marcia. Vanno fatti i dovuti distinguo. Nel caso Aymara, Bolivia, credo che l'obiettivo mai esplicitamente dichiarato sia ricostruire la nazione aymara. Che vuol dire? Ecco, non è facile da spiegare. È qualcosa di simile alla creazione di una propria nazione, che va oltre le attuali frontiere nazionali boliviane. Non è uno Stato. È un popolo che non ha Stato nella sua storia.
Per quanto riguarda i Quechuas, è ancora più difficile da dire. Ma credo che i popoli originari vadano comunque sempre al di là dello Stato-Nazioneattuale, fino a forme ancora non definite di nazione. Viviamo in un momento di transizione, verso un luogo non definibile a priori, una transizione che durerà molto, molto tempo.
Prima visione. Alberto Acosta, economista ecuadoriano ed ex presidente della Costituente, pensa che sia necessario il processo di approvare leggi il cui testo si confaccia con la vita quotidiana. Se questo non si farà, la Costituzione anche la più avanzata resterà lettera morta. Il problema è che il presidente Correa crede che le leggi sull'acqua e sulla comunicazione non siano importanti. E per Acosta questo è come dire che "la Costituzione non è fondamentale né prioritaria". Si chiede: "Sarà un caso che la Costituzione comincia a convertirsi in una camicia di forza per il presidente Correa?".
Crede che l'opposizione di destra, che si è opposta alla Costituzione, stia ostacolando ogni legge per impedire qualsiasi avanzamento. Dall'altro lato, "il modo di governare di Correa, che essenzialmente è un leader prepotente, non lascia spazio al dibattito". La conclusione è che la Costituzione che andava a rifondare il paese, "è legata a un modus operandi politico che non le garantisce di entrare pienamente in vigore". La società non la difende, ma da parte del governo "c'è una specie di controrivoluzione legale".
Seconda visione. Lo scrittore e filosofo boliviano Rafael Bautista ritiene che rifondare lo Stato in Bolivia senza potenziare le nazioni originarie significa non cambiare nulla o fare "pura cosmesi". E se non ci sarà rifondazione, ovvero decolonizzazione, "ciò che accadrà sarà una mera ricomposizione del carattere signorile dello Stato". Alla fine dei conti, si sta tendendo a perpetuare nello Stato plurinazionale quello stato coloniale costruito sulla credenza della superiorità sugli indigeni, che sostanzialmente non ha subìto modifiche.
Bautista dice che "il cambiamento già non consiste in una trasformazione dei contenuti del nuovo Stato", bensì "nell'adeguare il plurinazionale alle necessità funzionali dell'istituzione statale". E questo è esattamente quello che rivela la marcia, scaturita dal sentimento di superiorità sugli indigeni mostrata dal governo quando ha detto che questi sono manipolati, non agiscono per loro stessi, ma perché spinti dalle Ong internazionali. Un modo di fare che dimostra come lo Stato non riesca a smettere di essere in alto e nel centro. Non riesca a mettersi alla pari.
L'essenza del plurinazionale passa per un ampliamento dell'ambito decisionale, un ampliamento del potere. "Il plurinazionale non vuol dire la somma quantitativa degli attori, bensì il modo qualitativo di prendere le decisioni: siamo effettivamente plurali quando ampliamo l'ambito della decisione". E questo è quanto non succede, per questo Bautista dice che il governo attuale "comanda comandando, non comanda obbedendo".
Il governo non cede potere ai popoli originari, si limita a decentrarli fra governi locali e comuni, ovvero riproduce la logica dei privilegi, dato che da sempre, dai tempi della Colonia, questi sono gli spazzi delle elite locali. La marcia è la dimostrazione che è in atto una rinuncia a trasformare lo Stato, preferendo limitarsi a migliorare la sua performance. E questo comporta "l'attualizzazione della parodia signorile", conclude Bautista. La marcia indigena non fa altro che mostrare la nudità della proclamata decolonizzazione dello Stato.
I popoli originari, che hanno creato le nuove condizioni per la loro libertà,non continueranno a tollerare l'emarginazione politica. Sanno che gli Stati devono sfruttare le risorse naturali per pagare i conti. Ma sanno anche chequesta logica li condurrà alla distruzione. Per questo si sono messi inmarcia: perché ebbero la forza per frenare il neoliberalismo e ora non vogliono perdere l'opportunità.
E non si può generalizzare sulla meta di questa marcia. Vanno fatti i dovuti distinguo. Nel caso Aymara, Bolivia, credo che l'obiettivo mai esplicitamente dichiarato sia ricostruire la nazione aymara. Che vuol dire? Ecco, non è facile da spiegare. È qualcosa di simile alla creazione di una propria nazione, che va oltre le attuali frontiere nazionali boliviane. Non è uno Stato. È un popolo che non ha Stato nella sua storia.
Per quanto riguarda i Quechuas, è ancora più difficile da dire. Ma credo che i popoli originari vadano comunque sempre al di là dello Stato-Nazioneattuale, fino a forme ancora non definite di nazione. Viviamo in un momento di transizione, verso un luogo non definibile a priori, una transizione che durerà molto, molto tempo.
Stella Spinelli
Fonte: http://it.peacereporter.net
Nessun commento:
Posta un commento