14 giugno 2010

Esiste una giustizia per le vittime di Bhopal?

Sono passati quasi 26 anni da quella che è stata definita la "Hiroshima dell’industria chimica", ma a Bhopal non sembrano esserci speranze di giustizia per le decine di migliaia di vittime di quello che è stato uno dei peggiori disastri della storia indiana. È di due giorni fa la prima sentenza che individua e punisce i responsabili dell'accaduto. Ma una manciata di soldi, e qualche anno in carcere non sono nulla rispetto al prezzo che i cittadini di Bhopal stanno ancora pagando.
Era la notte tra il 2 ed il 3 dicembre 1984, quando una nube di gas tossico fuoriuscì da uno stabilimento dismesso della Union Carbide, multinazionale americana produttrice di pesticidi, propagandosi e disperdendosi nella parte settentrionale e negli slum di Bhopal, la capitale del Madhya Pradesh. 40 tonnellate di isocianato di metile uccisero, solo nel corso di quella prima notte, oltre seimila persone, e causarono gravi danni (perdita della vista, cancri, malattie respiratorie) ad intere generazioni nel corso degli anni seguenti.


Tra le cause incuria e scarsa manutenzione, dovute, come troppo spesso accade, alla fretta ed alla bramosia di guadagni, anche se a volte irrisori come nel caso in questione. 39 dollari al giorno, era questa la cifra che stava risparmiando la multinazionale americana da quando, poco meno di sei mesi prima dell’incidente, aveva deciso di interrompere il raffreddamento dell’impianto che produceva il gas tossico, ingrediente di base per dei concimi.

Questa prima sentenza, ora, sembra troppo poco, senza considerare il ritardo col quale è arrivata. Otto condannati, tutti a suo tempo dirigenti dell’Ucil (Union Carbide India Ltd), ma per cosa, dopo una così lunga attesa da parte dei sopravvissuti? E soprattutto, a quali pene? Due anni di reclusione (la stessa pena per chi causa un incidente stradale) e 100 mila rupie, ossia nemmeno duemila euro. Alla società, invece, circa ottomila euro di multa. È vero, la Union Carbide non si riprese più dalla vicenda, pagando nel 1989 al tuttora corruttibile governo indiano 470 milioni di dollari (divisi fra oltre 500 mila persone), e finendo dieci anni dopo nelle mani della concorrente Dow Chemical.

Ma quale può essere il messaggio che viene dato al mondo, oggi, se i responsabili di una delle peggiori catastrofi della storia - nonché della morte di 25 mila persone e della rovina di altre centinaia di migliaia, non più in grado dopo l’incidente, causa problemi genetici o di salute, di svolgere i lavori (spesso pesanti) che ne garantivano il sostentamento - subiscono una “condanna” che potrebbe ricevere un qualunque tassista di Nuova Delhi dopo un incidente?

Come si può sperare di continuare a legittimare il potere dei governi, quando dalla strage di Bophal all’attuale fuga di petrolio dalla piattaforma della BP (anch’essa schiava della fretta, forse per il mezzo milione di dollari al giorno di affitto che costava, e anch’essa agevolata da misure di sicurezza molto blande, soprattutto se paragonate a quelle obbligatorie in altri mari), dalle scorie radioattive nel Niger alle nostre “emergenze rifiuti”, i diritti della società civile vengono continuamente calpestati in nome del profitto di un pugno di corporation e di politici da queste finanziati?

Già nel 1996 la corte suprema indiana ridusse le accuse nei confronti degli stessi dirigenti Ucil da “omicido colposo” a semplice “negligenza”


Già nel 1996 la corte suprema indiana ridusse le accuse nei confronti degli stessi dirigenti Ucil da “omicido colposo” a semplice “negligenza”, assistendo per altri anni allo “scarica barile” e al rimbalzo di responsabilità dell’accaduto tra la sede dell’Union Carbide negli USA e la sua controllata indiana. Ma l’attuale sentenza oltre al danno sembra aggiungere la beffa, ed un tassello al mosaico di delegittimazione dei grandi poteri agli occhi dei comuni cittadini di tutto il mondo.

Una multinazionale provoca la morte di migliaia di persone? Riceve “pene” che non sono nemmeno simboliche. Una banca privata specula sulla pelle dei suoi correntisti fino al punto di far esplodere bolle finanziarie e rischiare la bancarotta? Interviene lo Stato con soldi pubblici per salvarla dal fallimento. Alcuni parlamentari di una delle principali “democrazie” europee hanno ricevuto condanne in via definitiva e non potrebbero sedere sulle poltrone su cui stanno? Basta ignorare le firme di centinaia di migliaia di cittadini che ne chiedono quantomeno le dimissioni.

È un morbo che attanaglia il mondo intero, ormai. Un mondo schiavo del profitto, dei conflitti di interesse e dei timori di essere tagliati fuori dal mercato, che portano ad avvantaggiare sempre e comunque le prerogative degli investitori (stranieri, nel caso indiano) a discapito, spesso, dei più basilari diritti umani. Questa sentenza può incentivare altre multinazionali all’irresponsabilità, ma può anche avvicinare un gran numero di persone all’esasperazione.

Condanne lievi e pene pecuniarie ridicole ai responsabili di veri e propri crimini contro l’umanità, infatti, non possono durare in eterno. Soprattutto in una situazione, come quella attuale, nella quale c’è sempre più divario fra ricchi e poveri, e soprattutto in cui sempre più persone non hanno nulla da perdere nel momento in cui decidono di ribellarsi a tali dinamiche di potere.

Ma la storia di Bhopal non finisce qui, ne possiamo essere certi. Perché la rassegnazione dei reduci e dei parenti delle vittime è ben lungi dall’arrivare, e già si guarda alla sentenza in appello. Tutti i responsabili devono essere processati, a partire da Warren Anderson, amministratore delegato della ditta americana fino al 1986 e tuttora latitante per la legge indiana. Perché se per la Seveso le pene furono lievi, non è detto che debba andare allo stesso modo in un contesto di interesse globale e di dimensioni ben più grandi come quello di Bhopal.

di Andrea Bertaglio
 
Fonte: http://www.terranauta.it/

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