di Daniele Scalea
1. Mercoledì 9 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha imposto nuove sanzioni all’Iràn per il suo programma nucleare. Molti analisti sono rimasti sorpresi dal voto favorevole di Russia e Cina alle sanzioni, sebbene si tratti della quarta tornata di misure prese contro l’Iràn, e tutte avallate da Mosca e Pechino. A stupire è stato soprattutto che tali sanzioni facessero seguito ad un accordo concluso da Tehrān con la Turchia e il Brasile, per evitare l’arricchimento dell’uranio sul suolo iraniano senza privare il paese persiano della tecnologia atomica. In realtà, proprio quest’accordo ha costituito una delle principali motivazioni per cui Russia e Cina hanno accolto le nuove sanzioni.
2. L’accordo turco-iraniano mediato dal presidente brasiliano Lula prevede che nel corso dell’anno l’Iràn consegni 1200 kg d’uranio a basso arricchimento (ossia composto per meno del 20% dall’isotopo 235U, che può essere sottoposto a fissione nucleare; nel caso iraniano parliamo di uranio al 3,5%) alla Turchia, ricevendone in cambio 120 kg di combustibile nucleare arricchito al 19,5%; tale combustibile sarebbe destinato al Centro di Ricerca Nucleare di Tehrān, che lavora alla sviluppo d’isotopi a scopo medico. Dall’isotopo 235U, infatti, si può estrarre il molibdeno-99, da cui si ottiene il tecnezio-99m, usato nell’85% dei procedimenti diagnostici di medicina nucleare. Attualmente il 95% della produzione mondiale di molibdeno-99 avviene in sei reattori dislocati rispettivamente in Canada, Belgio, Olanda, Francia, Germania e Sudafrica, i quali utilizzano uranio-235 fornito prevalentemente dagli USA. Gli Stati Uniti d’America, col 4,5% della popolazione mondiale, impiegano il 40% della produzione globale di molibdeno-99, mentre l’Iràn, dove si trovano l’1% degli abitanti della Terra, ne impiega lo 0,25% della produzione totale. Fino al 2007 l’Iràn importava tutto il molibdeno-99 di cui abbisogna: da allora riesce a produrlo autonomamente, ma solo grazie a scorte di combustibile nucleare che risalgono ai primi anni ‘90 (fornite dall’Argentina) e che sono destinate ad esaurirsi nel giro di qualche mese. Gl’Iraniani si sono dichiarati disposti ad acquistare sul mercato internazionale nuovo LEU al 19,5%, ma hanno finora incontrato il veto degli USA, che pretendono in cambio una rinuncia completa al programma nazionale d’arricchimento dell’uranio (che pure è un diritto garantito dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare, di cui la Repubblica Islamica è una firmataria). Rimangono perciò poche alternative: una rinuncia iraniana a produrre isotopi medici, tornando ad acquistarli dall’estero (l’opzione più gradita a Washington, ma giudicata inaccettabile da Tehrān); l’arricchimento dell’uranio al 19,5% da parte dell’Iràn (l’eventualità temuta dagli Atlantici, e non ancora tecnicamente sperimentata dai persiani); lo scambio di LEU al 3,5% con combustibile al 19,5%, proprio come previsto dal recente accordo con la Turchia (la soluzione di compromesso che, in teoria, dovrebbe accontentare tutti).
Val la pena notare che: i 1200 kg d’uranio a basso arricchimento (LEU secondo l’acronimo inglese) che l’Iràn consegnerebbe alla Turchia costituiscono più della metà delle sue scorte totali d’uranio; il LEU iraniano raggiunge al momento il 3,5% d’arricchimento, ancora ben lontano dalla soglia del 20% oltre il quale si realizza l’uranio ad alto arricchimento (HEU); per realizzare armi atomiche minimamente efficienti servono grosse quantità di uranio altamente arricchito (anche 90%).
3. L’accordo Turchia-Brasile-Iràn ricalca una precedente bozza negoziale proposta proprio dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) dell’ONU ed avallata dalle grandi potenze, USA compresi. Tale bozza d’accordo prevedeva che l’Iràn consegnasse i 1200 kg di LEU alla Russia: quest’ultima li avrebbe arricchiti al 19,5% e girati alla Francia, la quale li avrebbe incorporati in combustibile nucleare e consegnati all’Iràn. L’accordo era stato accettato con riserva da Tehrān: gl’Iraniani volevano infatti che lo scambio avvenisse simultaneamente e sul territorio iraniano, mentre le grandi potenze pretendevano che lo scambio fosse sequenziale (prima l’uranio iraniano alla Russia, e solo dopo il completamento del processo d’arricchimento il combustibile francese all’Iràn). La diffidenza iraniana derivava da precisi trascorsi negativi avuti con Parigi e Mosca.
Negli anni ‘70 l’Iràn investì circa 1 miliardo di dollari in Eurodif, un consorzio basato in Francia per l’arricchimento dell’uranio. Dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, Parigi non solo si è rifiutata di consegnare l’uranio arricchito a Tehrān, ma per giunta si è tenuta i soldi pagati dagl’Iraniani. Con la Russia è successo qualcosa di simile. Nel dicembre 2005 fu siglato un contratto per la fornitura di missili terra-aria S-300 dalla Russia all’Iràn, ma da allora Mosca ha sempre addotto generiche e poco credibili scuse pur di non onorare l’impegno preso. Da qui il comprensibile timore dell’Iràn che, una volta consegnate le proprie scorte di LEU a Russia e Francia, questi due paesi possano rimangiarsi la parola data e non dare la contropartita pattuita.
Grazie alla mediazione di Lula da Silva, si è raggiunto l’accordo che in linea teorica permetterebbe di superare quest’ostacolo: agl’inaffidabili Russi e Francesi si sostituirebbero i Turchi, che godono della fiducia iraniana.
4. L’accordo a tre Iràn-Turchia-Brasile ha subito suscitato una reazione di difesa nel “concerto” delle grandi potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, ossia quelle dotate di seggio permanente e diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: USA, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina. Questi cinque paesi hanno fin dall’inizio preso in mano la gestione del dossier nucleare iraniano, ammettendo al proprio fianco la sola Germania (il cosiddetto sistema “5+1”). L’iniziativa di Brasile e Turchia è stata immediatamente percepita come un’intrusione di nuove potenze emergenti nell’egemonia diplomatica delle potenze tradizionali. Non a caso, al Consiglio di Sicurezza i “cinque grandi” hanno fatto causa comune, votando all’unisono per sanzioni contro l’Iràn, trovando la scontata opposizione di Brasile e Turchia e l’astensione del piccolo Libano, conteso tra la sfera d’influenza siro-iraniana e quella saudita-nordamericana. La spaccatura dei “cinque grandi” in due fronti (gli Atlantici da una parte, Cina e Russia dall’altra) si è momentaneamente ricomposta per ribadire la propria posizione privilegiata nel panorama diplomatico internazionale. Non a caso Lula e Erdoğan hanno criticato la deliberazione del Consiglio di Sicurezza affermando che ne indebolisce l’autorità. Lo strapotere diplomatico dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale appare ormai anacronistico, ma le nuove grandi potenze emergenti (non solo Brasile e Turchia, ma anche Germania, India e Giappone) non sono ancora abbastanza solide ed unite per abbatterne l’egemonia. Tuttavia, pure i “cinque grandi” da anni lavorano ad una riforma del Consiglio di Sicurezza, palese segnale che loro stessi si sono accorti di come la sistemazione attuale sia insostenibile sul lungo periodo.
5. La Russia, che fino a pochi mesi fa appariva la principale protettrice dell’Iràn, aveva delle motivazioni aggiuntive per votare la nuova tornata di sanzioni. La prima è affermare il proprio ruolo di potenza mediatrice nel Vicino Oriente.
Durante la Guerra Fredda il Vicino Oriente era quella che i geopolitici moderni definiscono una shatterbelt, ossia un teatro regionale in cui le rivalità interne coinvolgono i competitori globali. Nello scontro tra paesi arabi e paesi non arabi (Israele, Turchia e Iràn) s’inserirono le due potenze mondiali, l’URSS coi primi e gli USA coi secondi. La posizione regionale di Mosca, che dovette essere costruita ex novo negli anni ‘50 e ‘60 (prima il Vicino Oriente era un condominio franco-anglosassone), s’indebolì tuttavia molto presto col passaggio dell’Egitto e di altri paesi arabi nel campo atlantico. Il crollo dell’URSS ha portato negli anni ‘90 ad una completa esclusione dei Russi dalla regione, tant’è vero che per oltre un decennio Washington è stata arbitra indiscussa degli equilibri locali.
Negli ultimi anni, tuttavia, il prestigio statunitense nel Vicino Oriente è stato minato da tre fattori: l’eccessiva accondiscendenza verso Israele, che non conferisce credibilità alcuna al preteso ruolo di “mediatore”; la maldestra decisione strategica di liquidare l’Iràq baathista aprendo la via all’influenza iraniana, che ha preoccupato i paesi arabi del Golfo; le difficoltà militari incontrate nel paese mesopotamico.
Il Cremlino cerca d’avvantaggiarsi delle difficoltà di Washington, ma non si sente pronto ad avviare un nuovo bipolarismo regionale, facendosi tutore d’una delle due fazioni che si vanno configurando nel Vicino Oriente (da un lato Iràn, Siria ed alcuni movimenti palestinesi, libanesi ed iracheni; dall’altro Israele ed i restanti paesi arabi, spalleggiati dagli USA). I Russi si sono perciò limitati a dare una discreta assistenza alla Siria e all’Iràn per ristabilire un maggiore equilibrio delle forze in campo, e quindi cercare d’inserirsi come potenza mediatrice neutrale. Ciò richiede però due cose: Mosca non deve apparire troppo schierata (e perciò accondiscendere di tanto in tanto alle richieste d’Israele); nessun’altra potenza deve cercare d’inserirsi nel medesimo ruolo equilibratore. Quest’ultimo fattore crea qualche incomprensione tra Mosca e Ankara, pur in un quadro di marcata distensione ed avvicinamento. Anche la Turchia, infatti, nel momento in cui sostiene Iràn e Siria cerca anche di porsi come protettrice dei paesi arabi, in un’ottica definita spesso “neo-ottomana”. Di fatto, Ankara vorrebbe diventare il polo regionale, che unisca tutti i paesi del Vicino Oriente sulla base dell’esclusione d’uno solo: Israele. Potrebbe trattarsi solo d’un caso, ma lo sgarbo russo alla Turchia rappresentato dalle sanzioni all’Iràn segue di poche settimane il più sanguinoso oltraggio sionista alla dirigenza anatolica, ossia l’attacco alla Freedom Flotilla.
Mosca deve fare attenzione a non discendere lungo una china pericolosa. L’amicizia turca è fondamentale per la geostrategia russa, perché il paese anatolico può, potenzialmente, minarne l’influenza nei Balcani, nel Mar Nero, nel Caucaso e nell’Asia Centrale, ed anche in Europa se si pone come fulcro energetico alternativo. Al contrario, collaborando con esso Mosca può più facilmente proiettarsi nel Vicino Oriente. Fortunatamente per i Russi, al momento non ci sono segnali che indichino nulla più d’una contingente incomprensione coi Turchi, in un quadro di crescente amicizia e collaborazione.
6. D’altro canto, in Russia c’è sempre stato un acceso dibattito sulle relazioni da instaurare con l’Iràn. Mentre alcuni settori vorrebbero stringere una vera e propria alleanza in funzione anti-statunitense, altri – che per ora hanno il sopravvento – si mostrano più cauti. Per costoro la situazione attuale, di contrasto latente ma non bellico tra l’Iràn e il Patto Atlantico, è la più proficua per la Russia. E non solo perché permette ai Russi di concludere eccellenti contratti col paese persiano sfruttandone il semi-isolamento.
L’Iràn possiede le seconde maggiori riserve di gas naturali al mondo, seconde solo a quelle della Russia. Tuttavia, consuma quasi tutta la produzione per soddisfare il proprio fabbisogno interno, sicché è appena il ventinovesimo esportatore mondiale. Potenzialmente, un Iràn dotato di energia nucleare e non più ai ferri corti con gli Atlantici potrebbe cominciare ad esportare ingenti quantità di gas naturale in Europa, magari tramite il Nabucco (che parte da Erzurum, non molto distante dal confine iraniano), e quindi porsi come competitore della stessa Russia. Ma finché i rapporti tra queste due entità si mantengono tesi, Mosca non rischia nulla, e può invece cercare di convincere l’Iràn a vendere il gas all’India e quest’ultima ad acquistarlo, lasciando così intatta la leva energetica che la Russia possiede nei confronti dell’Europa.
7. Proprio l’energia è uno dei capisaldi della nuova politica estera russa. Mosca vuole mantenere ed anzi rinsaldare il proprio ruolo di perno energetico mondiale, o quanto meno eurasiatico. In tale scenario rientrano proprio gli accordi di cooperazione nucleare con l’India, la Turchia e l’Iràn. Come già riferito, l’accordo mediato da Lula non faceva altro che sostituire la Turchia alla Russia nel medesimo ruolo di fornitore del combustibile nucleare all’Iràn. Mosca non ha gradito e si è messa di traverso, facendo così capire chiaramente che qualsiasi accordo futuro dovrà coinvolgerla in prima persona.
8. Del resto, tra Russia e Iràn non è la fine della relazione. Il loro rapporto di collaborazione proseguirà, anche se – almeno nei prossimi mesi – con maggiore freddezza. I Russi promettono di aprire la centrale di Bushehr in agosto. Col voto favorevole alle sanzioni e col rifiuto di ammettere l’Iràn all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai hanno voluto chiarire a Tehrān di non accettare ruoli da comprimari, ma di voler condurre le danze essi stessi. Mosca vorrebbe instaurare con l’Iràn un rapporto “ineguale”, com’è quello con la Siria: da un lato il tutore, dall’altro il protetto. È comprensibile, ma i Russi non dovrebbero mai dimenticare che l’Iràn è una vera e propria potenza regionale emergente, di ben altra pasta rispetto alla Siria. Le relazioni con Tehrān andranno modulate su basi differenti, oppure finiranno con l’essere conflittuali, a tutto vantaggio di Washington che prenderebbe due piccioni con una fava, mettendo una contro l’altra due potenze rivali.
9. Va infine tenuto conto della probabilità di un “voto di scambio”. Il Cremlino avrà chiesto qualche contropartita alla Casa Bianca in cambio del proprio assenso alle sanzioni, e la più plausibile è un rallentamento del programma di scudo anti-missili balistici portato avanti dagli USA. Evidentemente Mosca non si sente ancora pronta ad ingaggiare una nuova corsa agli armamenti con Washington, e perciò cerca di rimandarla il più possibile con ogni mezzo.
10. La Cina, dal canto suo, aveva molte meno ragioni per avallare la nuova tornata di sanzioni, e proprio per tale motivo è stata l’ultima ad accettarle e, secondo alcune voci, molto più della Russia avrebbe lavorato per ammorbidirle. Probabilmente, Pechino ha voluto evitare l’isolamento e continuare a muoversi in accordo con Mosca sul dossier iraniano: rimanendo sola contro tutti la propria capacità contrattuale nella questione si sarebbe alquanto indebolita.
11. Pechino e Mosca hanno modellato le sanzioni di modo da non compromettere i propri interessi economici in Iràn. Gli USA ed alcuni paesi europei faranno il resto, varando sanzioni unilaterali aggiuntive. In tal modo, il peso economico di Cina e Russia in Iràn andrà rafforzandosi ulteriormente nei prossimi mesi, a maggiore detrimento di quel che resta degli operatori europei.
12. In definitiva, l’assenso russo e cinese alle nuove sanzioni contro l’Iràn s’inserisce nel complesso ed intricato quadro delle interazioni tra le grandi potenze, un gioco diplomatico che prevede ambiguità ed apparenti voltafaccia, soprattutto da parte di quei paesi non abbastanza forti da mostrarsi intransigenti su ogni questione, di grande o piccolo conto (una possibilità oggi appannaggio solo degli USA). Tuttavia, lo scenario di medio e lungo termine non è destinato a mutare. Russia e Cina operano per scalzare l’influenza statunitense anche dal Vicino Oriente, e l’accordo con gli Atlantici verrà meno già nelle prossime settimane, quando questi ultimi cercheranno di varare sanzioni unilaterali che colpiscano anche quelle compagnie di paesi terzi che fanno affari con Tehrān. Perciò Russia e Cina continueranno ad essere per l’Iràn, se non gli amici più sinceri, di sicuro quelli più utili e potenti.
* Daniele Scalea è redattore di “Eurasia” e autore de La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010)
Fonte: http://www.eurasia-rivista.org
16 giugno 2010
Perché Russia e Cina hanno votato le sanzioni all’Iràn
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