La storia del buco sul fondo del Golfo del Messico è una delle vicende più istruttive degli ultimi anni. In essa si trovano riflesse le storture di un sistema economico dai tratti spesso demenziali, lo stato dei rapporti di forza tra economia e politica, la scarsa consapevolezza dei problemi ambientali, le differenze abissali e le incredibili similitudini tra i paesi più avanzati e quelli disperati, lo stato dei media e molto altro. Il buco che perde petrolio ci parla prima di tutto dell'irresponsabilità delle grandi corporation.
Nulla di nuovo, la stessa crisi che abbiamo appena cominciato ad attraversare ha già certificato che i giganti dell'economia sono immortali e intoccabili. In quella definizione di “troppo grandi per fallire” c'è già il seme del disastro: la garanzia dell'impunità degli amministratori e degli azionisti, liberi di giocare sapendo che le loro sconfitte saranno pagate da altri. Un'impunità garantita dal sostanziale acquisto o condizionamento del personale politico ai massimi livelli.
Negli Stati Uniti, ancora oggi considerati un modello da replicare universalmente, le regole per l'industria petrolifera le scrivono gli uomini dell'industria petrolifera e, quei pochi che ci hanno trovato da ridire, sono considerati pericolosi radicali, socialisti che vorrebbero limitare la libertà d'azione e la riservatezza delle aziende. Non basta: si è scoperto che anche quelli incaricati di controllare quel poco che era di competenza delle autorità americane, sono a libro paga delle compagnie, esattamente come altre decine di funzionari governativi che un anno lavorano per il governo e quello successivo per le aziende che dovevano controllare. Esattamente come i tre incaricati da Obama di riformare la finanza arrivano da Goldman Sachs, una delle principali banche-canaglia del pianeta, tra le maggiori responsabili della crisi in corso.
Non è stato un caso che il costo delle campagne politiche americane sia lievitato a livelli stellari: ovunque la maggiore disponibilità di fondi costituisce un vantaggio, ma in questo caso è evidente l'esistenza di un'asta permanente nella quale si cerca di conquistare la rappresentanza e i rappresentanti comprandoli. Si può ben dire che le compagnie petrolifere americane hanno una lunga tradizione in questo senso e il risultato e sotto gli occhi di tutti. Così com'è sotto gli occhi di tutti la diffusione di questo modello che ben poco ha a che fare con la democrazia e molto con quello che proprio i padri fondatori combatterono: la tirannia del denaro e delle compagnie finanziarie sugli uomini liberi.
Pochi sanno o hanno voglia di ricordare che i primi decenni di vita degli Stati Uniti furono caratterizzati dal divieto di costituzione di società per azioni e a responsabilità limitata. La ribellione fu contro la corona inglese, ma anche e soprattutto contro le imprese coloniali delle compagnie commerciali e la loro capacità di controllo sul governo britannico, potere che poi spinse la monarchia a scioglierle d'autorità e assumere il potere politico sui territori da queste assoggettate con la forza.
Al potere si accompagna l'atteggiamento di sufficienza verso le regole e un approccio volto più a soddisfarne i requisiti formali che a perseguire i risultati che queste ricercherebbero. Particolarmente gustosa, in questo senso, è la storia dei prescritti piani di emergenza in caso di perdite dalle trivellazioni nel Golfo del Messico, piani dei quali devono essere dotate tutte le compagnie che vi operano. In un'audizione al Congresso, i piani delle cinque maggiori compagnie sono risultati quasi identici nella loro inconsistenza. Identici al 90% e non poteva essere diversamente, visto che erano stati commissionati alla stessa azienda. Identici e ridicoli e non solo perché alla prova dei fatti si sono rivelati lontanissimi dalla necessità.
Due di questi riportano il numero di telefono di un biologo da chiamare in caso d'emergenza, che però è morto nel 2005. Tutti fanno riferimento all'importanza dell'integrità dell'habitat dei trichechi, che nel Golfo del Messico non si sono mai visti. Robaccia tirata via, del tutto inutile a limitare i danni verso terzi o l'ambiente.
Impressione confermata dal manuale della EXXON, che ha un'addizione di quaranta pagine su come gestire le obiezioni e le domande dei media, il doppio di quelle dedicate a come cercare di fermare il disastro. EXXON ha già attraversato un disastro del genere e sa che fa più danno l'odio della gente di quanto non faranno ridicole sanzioni o risarcimenti stiracchiati e pagati dopo decenni. Il piano d'emergenza si concentra quindi su come limitare i danni all'azienda più che su come limitare altri danni che interessano relativamente. Uno dei boss delle compagnie ha provato a giustificarsi dicendo che i piani per il dopo-disastro non raccolgono molta attenzione perché “loro” sono più concentrati sul fare in modo che i disastri non succedano.
E qui c'è la conferma che questa gente vive in mondi diversi dalla “piccola gente”, come l'ha definita il capo della British Petroleum in una gaffe rivelatrice. Tale e tanta é l'impunità reale dei suoi pari da trasudare platealmente in sfacciata megalomania, come testimoniano da oltre un secolo la cronaca e la letteratura e come hanno confermato anche le recenti esibizioni dei “signori dell'universo” di Wall Street nel bel mezzo dell'ecatombe da loro stessi provocata.
Comportamenti stigmatizzabili, ma perfettamente comprensibili se si considera che parliamo di persone che guadagnano spropositi e muovono ricchezze incalcolabili, che hanno più potere reale di gran parte dei leader mondiali e sono alla guida di macchine finanziarie costruite per fare profitti prendendo rischi, con la consapevolezza che il fallimento non è possibile e che qualsiasi danno o perdita saranno a carico di collettività di “piccola gente” che vive in mondi alieni.
Perdite e mondi tenuti a distanza da regole su misura, dalla protezione politica e, se non bastasse, dall'abilità nell'attraversare le frontiere dell'economia globalizzata per risparmiare su tutto e sfuggire al maggior numero di responsabilità. Non è un caso che il pozzo sia negli Stati Uniti, la titolare della concessione britannica, la piattaforma costruita in Corea del Sud, registrata alle isole Marshall e di proprietà svizzera e le operazioni in loco affidate ad altre società di diversa nazionalità. Non è il frutto del caso, ma un'architettura organizzativa che permette di sfuggire a normative e controlli e di abbattere i costi.
Le isole Marshall non hanno la competenza i mezzi e nemmeno le persone per gestire un registro navale e nemmeno per verificare la congruità tecnica di un “naviglio” del tipo della Deep Water Horizon, la piattaforma esplosa. Ci pensano allora delle società incaricate appositamente e appositamente costituite dalle previdenti compagnie che gestiscono navi e piattaforme. i regolamenti del registro delle Marshall prescrivono normalmente piante organiche ridotte rispetto alla media degli altri registri navali e non è che uno dei vantaggi.
Nulla possono le autorità americane sulla piattaforma, la loro competenza comincia al di sotto del pelo dell'acqua e, come già ricordato, si è scoperto che nemmeno lì guardavano bene. Nessuna lunga mano della legge può arrivare nemmeno a contestare i contratti di lavoro, spesso stipulati da lavoratori e società di paesi terzi e nemmeno coincidenti. La catena delle responsabilità è tanto lunga e tanto frammentata che il CEO di una grande corporation può ragionevolmente pensare di finire in galera per i suo comportamenti in azienda, solo presentandosi al lavoro armato e facendo fuoco personalmente su qualche presente. È proprio il sistema che spinge inevitabilmente a prendere rischi enormi: se va bene i guadagni saranno enormi, sa va male saranno altri a pagare. A queste condizioni nessuno può resistere alla tentazione di prendere rischi enormi.
Il fatto che il buco sia negli Stati Uniti e che il petrolio trasportato dalla Corrente del Golfo finirà proprio tra le sponde atlantiche, ha garantito e garantirà una certa visibilità al disastro e provocato danni economici enormi. Prevedibilmente, per anni ci saranno migliaia di cittadini e società commerciali degli Stati Uniti e di altre economie avanzate che rincorreranno la BP in cerca di risarcimenti. Una seccatura inevitabile, ma anche questa è una circostanza abbastanza remota nell'operatività complessiva delle compagnie petrolifere, che operano ovunque nel mondo e che in genere non hanno neppure questi fastidi. Il tempo gioca sempre a favore delle compagnie nelle lunghe liti che seguono eventi del genere; l'esito risarcitorio del disastro della EXXON Valdez dovrebbe tranquillizzare BP e i venti miliardi di dollari che Obama ha chiesto di accantonare per i risarcimenti, non sono soldi sequestrati e nemmeno da considerarsi già spesi, nemmeno se i danni dovessero eccedere quella somma come già sembra.
Il mondo è vasto e le compagnie hanno già fatto sapere che un'eventuale moratoria delle perforazioni del Golfo del Messico determinerà solo lo spostamento delle piattaforme in acque più ospitali: le piattaforme costano e non si possono lasciar ferme neppure un giorno, il tempo è notoriamente denaro. In molti paesi le compagnie petrolifere fanno semplicemente quello che vogliono, così si spingono a risparmi criminali e provocano danni molto più estesi di quello di cui si discute. Un lungo articolo del New York Times ha raccontato la situazione nel delta del fiume Niger, dove da cinquant'anni le perdite dalle trivellazioni e dagli oleodotti riversano nel fiume e nel Golfo di Guinea l'equivalente del contenuto della EXXON Valdez e nessuno dice niente.
Gli abitanti della zona si sono ribellati a una tale devastazione, prendendo le armi contro un governo centrale corrotto che incassa le royalty lasciando la regione e i suoi abitanti nella miseria e sempre più inquinati. Li hanno chiamati terroristi e blanditi con quattro soldi, persino i riscatti dei lavoratori pagati dalle compagnie sono una goccia nel mare di petrolio che ha devastato tutto. Le compagnie accusano i sabotaggi dei ribelli per le perdite, ma le tubature arrugginite, gli impianti fatiscenti e l'assenza di dispositivi di sicurezza, testimoniano ben altro.
Le vite degli abitanti del delta non valgono niente, i vegetali e i pesci di cui si nutrivano non valgono niente sui mercati internazionali, le loro case, i pozzi dai quali bevevano, i campi che coltivavano non valgono niente e, anche quando fossero stabiliti risarcimenti, sarebbero spiccioli in confronto ai miliardi di dollari risparmiati.
Tutto legale, tutto perfettamente in regola: se perfori il Golfo di Guinea nelle acque della Guinea Equatoriale, paghi diritti scontati direttamente sui conti personali di uno dei peggiori dittatori del mondo, tanto flessibile in materia di sicurezza da diventare un benemerito, anche se il suo popolo non vede un dollaro di quel denaro, visto che Teodoro Obiang investe per lo più in repressione. Ma è tutto legale, proprio com'è tutto legale nel Golfo del Messico e anche di più.
Nel Golfo del Messico, in quello di Guinea e in molte altri parti del mondo non ci sono feroci islamici a minacciare il nostro futuro, ma un sistema che nessuno ha voglia di mettere seriamente in discussione e che, al contrario, è sempre più teso alla privatizzazione dei guadagni e alla socializzazione delle perdite. Sarebbe il caso di rifletterci senza decidere subito che si tratta di eventi lontani e di cose che ci riguardano poco. Ci riguardano eccome e ci riguarderebbero anche se la “nostra” ENI non fosse uno dei cavalieri di questa apocalisse.
Fonte: http://www.altrenotizie.org/
25 giugno 2010
La marea nera delle corporation
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