PER SOTTOMETTERE LE SCELTE ECONOMICHE ALLE DECISIONI POLITICHE
Gli investitori stranieri - tra i quali in prima fila troviamo le banche francesi e tedesche - detengono il 70 % del debito greco. Una situazione che pone la politica del paese sotto la tutela delle istituzioni finanziarie internazionali, e che potrebbe estendersi alla Spagna, all'Italia e al Portogallo. Tuttavia, c'è un modo per assicurare la sovranità della deliberazione politica: finanziare il debito all'interno.
di FRÉDÉRIC LORDON*
In linea con l'eterna logica dei falsi dibattiti, il tumulto di commenti suscitati dalla crisi greca si guarda bene dal violare la separazione tra questioni da porre (inoffensive) e argomenti da non toccare (più imbarazzanti), inserendo tra questi ultimi la questione del finanziamento dei deficit pubblici. Questa è una problematica che i trattati europei si sforzano di dichiarare chiusa: tale finanziamento infatti va posto in essere esclusivamente sui mercati di capitali, sotto la tutela degli investitori internazionali. Tuttavia, la semplice osservazione dei danni prodotti dall'esposizione della finanza pubblica greca ai mercati delle obbligazioni potrebbe sollecitare la ricerca di soluzioni meno disastrose, come, ad esempio, il ricorso al finanziamento monetario del deficit (1).
Uno sguardo alla situazione greca potrebbe anche condurre ad una riflessione sul singolare caso del Giappone, un altro paese estremamente indebitato... che è però assente dalla cronaca delle crisi di deficit statali. Perché se si fa un gran parlare del debito greco, il suo ammontare (270 miliardi di euro, corrispondente al 113 % del prodotto interno lordo nel 2009, con una previsione del 130 % nel 2010) resta tuttavia modesto se paragonato a quello del debito giapponese, che nel 2010 si assesterebbe al 200 % del Pil - record incontestato tra i paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Come è possibile che il paese detentore del più significativo debito pubblico del mondo, afflitto inoltre da una solvibilità apparentemente più degradata (se si fa sommariamente riferimento alla sua percentuale sul Pil), sia ignorato a tal punto dagli investitori internazionali?
La risposta, semplicissima, è la seguente: perché gli investitori internazionali non sono i sottoscrittori del debito pubblico giapponese.
Esso è posseduto per più del 95 % dai risparmiatori nipponici. Contrariamente agli Stati uniti, il Giappone offre consistenti tassi di risparmio delle famiglie, ampiamente sufficienti per coprire i bisogni di finanziamento dello stato e delle imprese. I mercati non sono spinti dal debito pubblico giapponese - che si arrangia egregiamente anche senza di loro - né, di conseguenza, hanno la possibilità di sottomettere la politica economica del paese alle loro regole assurde. Affinché i mercati possano intromettersi in tale campo, è necessario che abbiamo gli strumenti per farlo, ovvero i titoli del debito. Senza questi, non è possibile nessuna ingerenza.
Per coloro che hanno intenzione di comprenderla, la crisi greca, alla luce del caso giapponese, offre dunque l'occasione di riflettere sulla logica della deregolamentazione della finanza mondiale, determinata dai solidi interessi che essa promuove, più che dai prodigi della teoria economica classica - sempre utilizzabile, quando si parla di deregolamentazioni, per promettere mari e monti, crescita economica e aumento dei posti di lavoro.
A partire dalla metà degli anni '80 gli Stati uniti si sono trovati di fronte alla seguente questione: come finanziare il debito (estero e di bilancio) in assenza di risparmio nazionale (2)? Semplicemente facendo venire il denaro dai paesi risparmiatori. Ovvero, all'epoca (come d'altronde ancora oggi), Giappone e Germania, a cui si è aggiunta ormai anche la Cina. La deregolamentazione finanziaria è dunque la risposta strategica consistente nell'impostare le strutture della circolazione internazionale dei capitali per esonerare l'economia americana dal dover completare il circuito risparmio-investimento all'interno del proprio spazio nazionale.
L'esempio del debito giapponese
Diciamo chiaramente che numerosi paesi, inconsapevoli di ciò che li attendeva, non sono rimasti insensibili al fascino della deregolamentazione finanziaria internazionale. Ciò è avvenuto perché, a partire dal rallentamento della crescita economica verificatosi negli anni '70, la questione del finanziamento dei deficit divenne un problema caratteristico della maggior parte delle economie occidentali. Tra queste, la Francia ha esplicitamente concepito la propria deregolamentazione in funzione innanzitutto del finanziamento non monetario del suo deficit di bilancio (3). Ma tutti, precipitandosi nella geniale invenzione del riciclaggio internazionale del risparmio, hanno presto avuto modo di accorgersi dei vincoli che ne costituiscono la contropartita. Perché, nelle relazioni tra debitori e creditori, le strutture dei mercati di capitali liberalizzati rovesciano i rapporti di forza a favore dei secondi.
E gli stati hanno scoperto che prendere denaro in prestito sui mercati significa sottomettersi al loro verdetto.
Se tale verdetto fosse equilibrato, si potrebbe vederlo come il minore dei mali. Ma esso non lo è, e soprattutto non può esserlo (4). Dall'imposizione di tassi d'interesse i più bassi possibili alla sanzione di qualunque scostamento (anche il meglio fondato) dal deficit di bilancio, passando per l'interdizione del suo finanziamento monetario e la santificazione del modello della banca centrale indipendente, è possibile farsi un'idea, anche solo superficiale, dell'ampiezza delle rinunce di politica economica determinate dal controllo dei mercati. Quelli che in condizioni di normalità sono dei vincoli, in una situazione di crisi si trasformano in incubi. Infatti, la diffidenza degli investitori si manifesta attraverso la vendita dei titoli del debito pubblico, il cui risultato è un aumento dei tassi d'interesse, ovvero del costo del finanziamento degli stati. Il supplemento di tensioni finanziarie che ne segue può arrivare fino all'imposizione di costi esorbitanti ai bilanci pubblici, come se ne stanno dolorosamente rendendo conto i greci. Le tensioni che si determinano intorno all'ipotesi di una crisi delle finanze pubbliche hanno l'effetto di condurre gli operatori in una direzione che manifesta tutte le caratteristiche della dottrina normalizzatrice dei mercati e che inasprisce l'adeguamento della politica economica - per capirlo è sufficiente guardare all'ampiezza dei sacrifici che gli investitori esigono a breve termine dalla Grecia in cambio di un'apparente ritorno alla calma... È proprio in questo frangente che il caso giapponese potrebbe fare scuola. Per affrancarsi dai creditori abusivi è necessario... cambiare creditori. Il Giappone ha avuto la saggezza di fare ciò, o piuttosto ha avuto il buonsenso di non compiere il primo passo, quello che ha gettato la maggior parte degli altri paesi tra gli artigli degli investitori a cui le strutture dei mercati deregolamentati hanno permesso di entrare nei mercati nazionali... dando loro un enorme potere di condizionamento rispetto alle politiche economiche degli stati. Contrariamente a quanto enunciato dall'ideologia della globalizzazione, che fa l'apologia della soppressione di tutte le frontiere (e specialmente di quelle che potrebbero ostacolare i movimenti di capitali) il caso giapponese, in materia di indebitamento dello stato, offre l'esempio di un'opzione non solo valida ma dotata di proprietà vantaggiose.
Non si vuole qui sostenere che la soluzione giapponese offra una riposta infallibile, che permetterebbe ai debiti pubblici di essere finanziati in modo illimitato e al di fuori di qualunque vincolo - è possibile che anche il Giappone, con il suo debito al 200 % del Pil, possa incontrare qualche ostacolo imprevisto - , ma è doveroso almeno riconoscere a Tokyo il merito di avere portato un alto livello di debito pubblico in condizioni di eccellente stabilità. Il compimento di questa opera è stato possibile anche grazie ad una serie di condizioni (oltre al possesso locale del debito) che non vanno trascurate: in particolare, va sottolineato il lavoro coordinato dei poteri pubblici e degli istituti di risparmio. Attraverso un compromesso tipicamente giapponese, sistema bancario e casse pensioni sono effettivamente «state al gioco», orientando massicciamente i capitali delle famiglie verso l'acquisto di titoli del debito pubblico. I risparmiatori non hanno avuto di che lamentarsi: da vent'anni, il mercato azionario era in condizioni disastrose e permetteva di conseguire entrate decisamente modeste. Per quanto riguarda la politica monetaria dei tassi quasi nulli, essa ha ridotto i rendimenti a livelli molto bassi, a paragone dei quali le percentuali garantite dai titoli pubblici appaiono principesche.
Il caso giapponese dà l'occasione di riscoprire che, in merito alla gestione dei risparmi, i risparmiatori non hanno alcun potere e che esso spetta completamente agli intermediari, vale a dire agli istituti che operano per essi. Ma la cosa sorprendente è che talvolta questo potere può non essere esercitato nel peggiore dei modi, come nel caso degli investitori occidentali, che si dilettano a svolgere un ruolo di arbitraggio a breve termine e a spostare freneticamente i loro capitali da una categoria di attivi e da un paese all'altro (alla ricerca del minore differenziale di redditività). Contrariamente ad essi, gli investitori istituzionali giapponesi hanno «fissato» una parte importante dei risparmi dei loro mandanti sui titoli pubblici, le cui condizioni di finanziamento hanno dimostrato una grande regolarità (e sono soprattutto sottratte alle turbolenze speculative che destabilizzano periodicamente i titoli pubblici degli altri paesi).
Rinazionalizzare il debito pubblico
Non è necessario cercare molto lontano i presupposti che hanno reso possibile la grande tranquillità che ha accompagnato la crescita impressionante del debito pubblico giapponese...e che potrebbe permetterci, se non di fare altrettanto - poiché un debito corrispondente al 200 % del Pil non è un obiettivo in sé desiderabile! - , almeno di contenere gli spaventosi vincoli che gravano sull'indebitamento pubblico nel momento in cui ciò è più necessario: nel cuore della recessione.
Benché il ventaglio di alternative possibili non sia ampio, è dunque possibile compiere delle scelte. Un'opzione consiste nel sottomettersi alle ingiunzioni degli investitori internazionali che determinano sia il volume lordo del debito pubblico sia le condizioni nelle quali questo è contratto. Oppure, nell'ipotesi (peraltro discutibile [5]) in cui si desiderasse restare nell'ambito del finanziamento obbligazionario puro, optare per la rinazionalizzazione del finanziamento dei deficit, organizzando l'allocazione massiccia dei risparmi nazionali (evidentemente per i paesi che ne dispongono, come la Francia) verso i titoli di stato. Gli istituti di risparmio francesi hanno da lungo tempo preso una direzione radicalmente diversa e difficilmente accetterebbero spontaneamente un compromesso sul modello giapponese. Sarà necessario imporre quindi regole con un minimo grado di severità, in particolare obbligando i risparmiatori nazionali a investire una quota dei propri risparmi in titoli del debito pubblico: una parte sufficiente a fare sì che tale debito sia quasi totalmente coperto attraverso contributi nazionali.
Tutto considerato, quest'ultima costituisce una possibilità che presenta diversi vantaggi e pochi inconvenienti. In primo luogo, i titoli di stato offrono una remunerazione ragionevole, superiore a quella dei libretti di risparmio (ma tassati), senza tuttavia scadere nello stravagante (poiché, in generale, i buoni del tesoro costituiscono gli attivi definiti «senza rischio» e nella gerarchia dei tassi di interessi essi costituiscono il riferimento di base). Inoltre, deviare dal mercato azionario il risparmio è probabilmente uno dei migliori servizi che si possano rendere a quest'ultimo - tutelandolo in questo modo dalle cicliche crisi di Borsa che investono i piccoli portatori - , ma anche all'intera comunità, poiché le azioni a risparmio, economicamente dispensabili (6), rappresentano per sempre lo strumento del potere azionario e dei vincoli che esso fa gravare sul mondo dei salariati.
Si sosterrà che la rinuncia alla mobilitazione di capitali stranieri e l'orientamento prioritario del risparmio nazionale verso i titoli pubblici attiverebbero inevitabilmente l'effetto di evizione (7)?
In realtà, ciò non avverrebbe, perché il tasso di risparmio in un paese come la Francia è così elevato che permetterebbe di coprire tranquillamente il bisogno di finanziamento dello stato, «lasciando qualcosa» anche per il settore privato e che, ad ogni modo, anche nell'ipotesi qui formulata, le imprese rimarrebbero completamente libere di andare a finanziarsi sui mercati internazionali.
Diciamo tuttavia le cose come stanno: si tratta di un sistema di contribuzione forzata. Non contribuzione immediata e diretta - il cui nome è tassazione - ma contribuzione indiretta attraverso il finanziamento intervallato nel tempo dei deficit pubblici - e, comunque, contribuzione remunerata! Esistono forme di costrizione decisamente più dolorose... Il parallelo tra i due tipi di contribuzione ci dà inoltre la possibilità di ricordare che uno dei modi, sistematicamente scartati, per la risoluzione non solo del problema del finanziamento del debito, ma del deficit stesso, consisterebbe nel riesaminare la sequenza infinita di defiscalizzazioni di questi anni (8).
Ma la deglobalizzazione del finanziamento dei deficit avrebbe soprattutto un merito immenso, il cui significato è divenuto totalmente inconcepibile per gli economisti (ortodossi): un merito politico e democratico.
Rinazionalizzare la questione del finanziamento equivarrebbe a espellere da essa gli investitori internazionali ed a reintegrarla completamente nel contratto sociale nazionale, restituendo alla politica la capacità di mediare i conflitti che tale questione inevitabilmente produce.
Come Bruno Tinel e Franck Van de Velde hanno dimostrato (9), il conflitto generazionale opportunamente ostentato con tanto di geremiadi circa «il debito che lasceremo in eredità ai nostri figli» ha l'obiettivo prioritario di mascherare il conflitto fondamentale - e assolutamente attuale - tra i meno ricchi, che, con le loro tasse, pagano la restituzione del debito, e i più agiati, che ne possiedono i titoli.
I termini stessi di questa immediata ridistribuzione dai contribuenti ordinari ai titolari di patrimoni finanziari sono determinati dal funzionamento dei mercati di capitali. Essi sfuggono infatti a qualunque deliberazione politica - ricordiamo tuttavia che la restituzione del debito rappresenta, in Francia, la seconda voce di bilancio dopo l'istruzione, non certo un'inezia... e soprattutto un buco nero nella sovranità politica, di cui il bilancio statale è l'espressione finanziaria per eccellenza. Quale deve essere il tasso di interesse del debito pubblico e a quanto deve corrispondere l'ammontare di questi trasferimenti?
Ecco una questione che la sfera politica ha il compito di risolvere.
Ciò è possibile soltanto se la maggioranza dei possessori del debito è composta dai cittadini dello stato stesso. Ovvero se è possibile organizzare il confronto tra gli interessi contrapposti dei creditori e dei debitori dentro i confini della sovranità nazionale.
Neoliberismo contro sovranità popolare
Soltanto allora i candidati all'esercizio del potere politico potranno presentare agli elettori le loro proposte in campo finanziario, allo stesso modo in cui presentano loro quelle in materia fiscale. Un tasso di interesse troppo elevato...e il carico del debito, attraverso un effetto di evizione di cui si parla poco, imporrà l'abbandono delle spese pubbliche utili. Un tasso troppo basso...e i risparmiatori si troveranno danneggiati da una remunerazione insufficiente. Ancora troppo basso...e la forza di richiamo sull'indebitamento pubblico non sarà più abbastanza potente, creando a breve termine una minaccia di perdita di solvibilità e di esposizione dei patrimoni dei creditori.
Troppo elevato...e i trasferimenti verso i più ricchi ricadranno nella contro-ridistribuzione abusiva, ecc.
Tra tutti questi effetti contraddittori, la sfera politica (nelle sue diverse componenti) ha il compito esclusivo di indicare una soluzione.
Tale ruolo non spetta sicuramente agli investitori internazionali che, guidati unicamente dai loro interessi di creditori e completamente estranei alla comunità politica, sono nondimeno in condizioni di imporre a quest'ultima alcune scelte molto gravi per la propria vita collettiva.
Come oggi appare evidente, la dottrina liberista si è affrettata a dichiarare il superamento dello spazio nazionale ed a promuovere le trasformazioni strutturali (ovvero le deregolamentazioni di ogni tipo) in grado di rendere reale questa affermazione. La storia del XIX e del XX secolo ha fornito sufficienti ragioni per diffidare di quell'ipertrofia del principio nazionale che porta il nome di «nazionalismo». Essa non ha tuttavia prodotto alcuna concezione concreta alternativa della sovranità politica. Questa è la ragione per cui il liberismo, distruggendo l'idea di nazione, cancella anche quella di sovranità, stando ben attento, nella sua ipocrisia, ad evitare la ricostruzione di quest'ultima su scala territoriale più larga.
Perché il concetto di nazione potrebbe essere esteso aldilà degli aggregati territoriali e culturali in cui è nata, per abbracciare spazi più compositi ma resi coerenti dalla costruzione di un destino comune - ciò che appunto si chiama sovranità - , e al termine di tale allargamento sarebbe più chiaro che sovranità e nazione coincidono, e che una è sinonimo dell'altra.
Ma il neoliberismo non vuole assolutamente che tali spazi costituiti in realtà politiche possano deliberare, stabilire le loro regole e farle applicare. Finora esso ha potuto fare ciò che voleva, ora si tratta di sapere fino a quando le cose potranno continuare in questo modo. Se mi è permesso richiamare ancora la storia recente, ci sarebbero veramente numerose buone ragioni per diffidare dei movimenti di ricostituzione violenta della sovranità nel momenti in cui questa è stata oltremodo attaccata - poiché essa può assumere anche le forme più odiose. Oggi non è possibile escludere che, dopo vent'anni di erosione e di aggressioni continue, ci si possa pericolosamente avvicinare a tali punti critici. L'idea di una riconquista ordinata di tale sovranità offre quindi una prospettiva politica che potrebbe essere urgente, oltre che interessante.
Questa prospettiva ha certamente l'inconveniente di apparire passatista, ripristinando un concetto di nazione messo in ridicolo dal neoliberismo e da quanti, a sinistra, hanno creduto opportuno dare un contributo in tale direzione, ma al prezzo di separare l'idea di nazione dal suo correlato essenziale: la sovranità. Verrà un giorno in cui queste persone, desiderose di gettare il primo di questi termini nella pattumiera della storia, ci dovranno dire se hanno intenzione di fare lo stesso anche con il secondo.
A ogni modo, nel medio periodo, può darsi che il passatismo della deliberazione politica (nella quale l'indebitamento sarebbe completamente reintegrato) sia preferibile a un mondo globalizzato, straordinariamente moderno, nel quale i mercati di capitali determinano il tributo prelevato dalla ricchezza nazionale da parte di creditori sparsi ai quattro angoli del pianeta. Ed è possibile attribuire qualche valore a questa conclusione tutto sommato abbastanza semplice: se la globalizzazione non è in definitiva altro che la dissoluzione delle sovranità attraverso la crescita del ruolo del mercato nel finanziamento dell'economia, allora deglobalizzare significa ripoliticizzare.
note:
* Economista, autore di La Crise de trop. Reconstruction d'un monde failli, Fayard, Parigi, 2009.
(1) Finanziamento derivante dall'apertura di crediti della banca centrale (creazione monetaria) al Tesoro, dunque sottratto ai mercati di capitali. Si legga «Au-delà de la Grèce: déficits, dette et monnaie», La pompe à phynances, http://blog.mondediplo.net, 17 febbraio 2010.
(2) Il tasso di risparmio delle famiglie statunitensi ha continuato a calare, passando dall'8 % dell'inizio degli anni '80 allo... 0% del 2006.
(3) Si legga Pierre Rimbert, «Quando lo stato francese deregolamentò i mercati», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2009.
(4) Cfr. Frédéric Lordon, Les Quadratures de la politique économique, Albin Michel, Parigi, 1997.
(5) Si legga «Au-delà de la Grèce... », op. cit. (6) e Frédéric Lordon, «E se si chiudesse la Borsa...» Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2010.
(6) Si veda «E se si chiudesse la borsa...» Le monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2010.
(7) La teoria economica parla di «effetto dell'evizione» quando, in un'economia finanziariamente chiusa, lo stato soddisfa prioritariamente i suoi bisogni di finanziamenti, prosciugando il mercato dei fondi mutuabili e facendo crescere il costo del finanziamento degli altri attori che vengono dopo di lui e che, di conseguenza, subiscono gli effetti di una sorta di penuria finanziaria. In questo modo il potere pubblico «escluderebbe» gli altri richiedenti di capitali.
(8) Il deputato socialista Didier Migaud, allora presidente della commissione finanze dell'Assemblea nazionale francese (prima di essere nominato presidente della Corte dei conti), si è, una volta tanto, dimostrato utile, sollevando una questione spinosa: egli ha infatti portato alla luce le allettanti offerte fatte alle imprese di defiscalizzazione totale delle plusvalenze derivanti dalle cessioni di partecipazioni di lungo termine: 20 miliardi di euro, ovvero l'1% del Pil di deficit in più. Sul tema delle regalie fiscali, cfr. Jean Gadrey, «Vive l'impôt!», blog di Alternatives économiques, 15 marzo 2010.
(9) Si legga Bruno Tinel e Franck Van de Velde, «Quello spaventoso debito pubblico», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2008.
(Traduzione di Al. Ma.)
Fonte: http://www.monde-diplomatique.it
16 giugno 2010
Rinazionalizzare la finanza, a partire dal caso greco
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