di Domenico Losurdo
Il crimine consumato da Israele in acque internazionali a danno dei pacifisti impegnati a portare soccorso ai prigionieri rinchiusi in quell’immenso campo di concentramento che ormai è Gaza può e deve indignare, ma non può stupire: da un pezzo il governo di Tel Aviv si mostra deciso a colpire col terrore non solo le vittime dirette del suo espansionismo coloniale, ma anche coloro che osano esprimere solidarietà con le vittime e in un modo o nell’altro intralciano la terribile macchina da guerra e di oppressione cui i carnefici fanno ricorso. La tesi secondo cui i pacifisti erano armati e quindi meritevoli di morire fa il paio con la tesi in base alla quale era un obbligo morale scatenare l’operazione Shock and awe (Colpisci e terrorizza!) contro l’Irak di Saddam Hussein, colpevole di detenere armi di distruzioni di massa! Anche nell’arte della manipolazione si rivelano la solidarietà e la complicità di fondo che legano Israele e gli Usa e che non sono sostanzialmente intaccate dall’avvicendarsi dei vari inquilini della Casa Bianca.
E’ una manipolazione che, se non apertamente incoraggiata, non è certo ostacolata dalla grande stampa di «informazione». Negli ultimi tempi, in Palestina così come in certi settori dell’Occidente, si sta sviluppando una forma nuova di lotta, consistente nel boicottaggio delle merci prodotte da coloni che, in flagrante violazione del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo, continuano ad espandersi nei territori occupati. Era l’occasione, per coloro che non si stancano di condannare la «violenza» della resistenza, di salutare questa forma di lotta tipicamente non-violenta che è il boicottaggio. E’ invece avvenuto il contrario. Sul «Corriere della Sera» Furio Colombo e diversi altri si sono affrettati nei giorni scorsi a sentenziare che il boicottaggio delle esportazioni israeliane provenienti dai territori illegalmente occupati fa pensare alle misure a suo tempo messe in atto dalla Germania nazista contro i negozi di proprietà ebraica.
Come stanno in realtà le cose? Come ho ricordato nel mio ultimo libro (La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza), al boicottaggio hanno fatto costantemente ricorso i popoli oppressi, in primo luogo i popoli coloniali. E’ uno strumento di lotta che, per limitarci al Novecento, vediamo all’opera in Cina nel corso della protesta organizzata dal movimento del 4 maggio (1919) contro la pretesa del Giappone, incoraggiato o tollerato dalle altre potenze imperialistiche, di imporre il suo protettorato sul grande paese asiatico. Un decennio dopo, al boicottaggio dei tessuti giapponesi fa seguito in India il boicottaggio dei prodotti dell’industria tessile inglese. In questo caso, a promuovere l’agitazione è il movimento ispirato e diretto da Gandhi: «Donne picchettavano regolarmente i negozi dove erano venduti vestiti prodotti in Gran Bretagna. Esse seguivano le altre donne che uscivano dai negozi e cercavano di persuaderle a restituire i loro acquisti». Alcuni anni dopo, è la comunità ebraica internazionale a suggerire il boicottaggio delle merci tedesche come risposta al furore antisemita di Hitler. E’ questa la tradizione alle spalle del movimento che oggi cerca di colpire le merci prodotte solo grazie a un disumano espansionismo coloniale nei territori palestinesi occupati.
Certo, sin dagli inizi il regime nazista si è impegnato a strangolare l’attività commerciale e industriale degli ebrei tedeschi e a privarli delle loro legittime proprietà. Ma tutto ciò ha a che fare non col boicottaggio (tradizionale strumento di lotta dei popoli oppressi), bensì con l’uso terroristico del potere politico. Semmai una analogia si vuole cercare, occorre allora fare riferimento alle misure che oggi colpiscono i palestinesi, espropriati delle loro case, delle loro terre, dei loro uliveti, e messi sempre più nell’impossibilità di condurre una vita umana degna di questo nome.
La condanna, anzi la criminalizzazione, che il potere e l’ideologia dominanti fanno anche della lotta non-violenta contro il colonialismo sionista, è la conferma della volontà di Washington e di Bruxelles, nonostante alcuni momenti di imbarazzo e di apparente presa di distanza, di lasciare impuniti i crimini di Israele, anche quelli commessi in acque internazionali, e di condannare invece in un modo o nell’altro qualunque forma di resistenza del popolo palestinese. Sul versante opposto, è obbligo morale di ogni democratico, anticolonialista e antifascista solidarizzare con la resistenza palestinese (e araba e islamica) contro l’imperialismo e il colonialismo. Spetta a essa decidere e scegliere le forme di lotta. E’ con questo spirito che sabato 29 maggio ho partecipato a Firenze all’affollata e combattiva manifestazione che si è stretta attorno a Ali Fayyad, membro del Parlamento libanese e autorevole esponente di quel grande movimento di liberazione nazionale che sono gli Hezbollah.
Fonte: http://domenicolosurdo.blogspot.com/
E’ una manipolazione che, se non apertamente incoraggiata, non è certo ostacolata dalla grande stampa di «informazione». Negli ultimi tempi, in Palestina così come in certi settori dell’Occidente, si sta sviluppando una forma nuova di lotta, consistente nel boicottaggio delle merci prodotte da coloni che, in flagrante violazione del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo, continuano ad espandersi nei territori occupati. Era l’occasione, per coloro che non si stancano di condannare la «violenza» della resistenza, di salutare questa forma di lotta tipicamente non-violenta che è il boicottaggio. E’ invece avvenuto il contrario. Sul «Corriere della Sera» Furio Colombo e diversi altri si sono affrettati nei giorni scorsi a sentenziare che il boicottaggio delle esportazioni israeliane provenienti dai territori illegalmente occupati fa pensare alle misure a suo tempo messe in atto dalla Germania nazista contro i negozi di proprietà ebraica.
Come stanno in realtà le cose? Come ho ricordato nel mio ultimo libro (La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza), al boicottaggio hanno fatto costantemente ricorso i popoli oppressi, in primo luogo i popoli coloniali. E’ uno strumento di lotta che, per limitarci al Novecento, vediamo all’opera in Cina nel corso della protesta organizzata dal movimento del 4 maggio (1919) contro la pretesa del Giappone, incoraggiato o tollerato dalle altre potenze imperialistiche, di imporre il suo protettorato sul grande paese asiatico. Un decennio dopo, al boicottaggio dei tessuti giapponesi fa seguito in India il boicottaggio dei prodotti dell’industria tessile inglese. In questo caso, a promuovere l’agitazione è il movimento ispirato e diretto da Gandhi: «Donne picchettavano regolarmente i negozi dove erano venduti vestiti prodotti in Gran Bretagna. Esse seguivano le altre donne che uscivano dai negozi e cercavano di persuaderle a restituire i loro acquisti». Alcuni anni dopo, è la comunità ebraica internazionale a suggerire il boicottaggio delle merci tedesche come risposta al furore antisemita di Hitler. E’ questa la tradizione alle spalle del movimento che oggi cerca di colpire le merci prodotte solo grazie a un disumano espansionismo coloniale nei territori palestinesi occupati.
Certo, sin dagli inizi il regime nazista si è impegnato a strangolare l’attività commerciale e industriale degli ebrei tedeschi e a privarli delle loro legittime proprietà. Ma tutto ciò ha a che fare non col boicottaggio (tradizionale strumento di lotta dei popoli oppressi), bensì con l’uso terroristico del potere politico. Semmai una analogia si vuole cercare, occorre allora fare riferimento alle misure che oggi colpiscono i palestinesi, espropriati delle loro case, delle loro terre, dei loro uliveti, e messi sempre più nell’impossibilità di condurre una vita umana degna di questo nome.
La condanna, anzi la criminalizzazione, che il potere e l’ideologia dominanti fanno anche della lotta non-violenta contro il colonialismo sionista, è la conferma della volontà di Washington e di Bruxelles, nonostante alcuni momenti di imbarazzo e di apparente presa di distanza, di lasciare impuniti i crimini di Israele, anche quelli commessi in acque internazionali, e di condannare invece in un modo o nell’altro qualunque forma di resistenza del popolo palestinese. Sul versante opposto, è obbligo morale di ogni democratico, anticolonialista e antifascista solidarizzare con la resistenza palestinese (e araba e islamica) contro l’imperialismo e il colonialismo. Spetta a essa decidere e scegliere le forme di lotta. E’ con questo spirito che sabato 29 maggio ho partecipato a Firenze all’affollata e combattiva manifestazione che si è stretta attorno a Ali Fayyad, membro del Parlamento libanese e autorevole esponente di quel grande movimento di liberazione nazionale che sono gli Hezbollah.
Fonte: http://domenicolosurdo.blogspot.com/
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