di Richard Irvine
Nessuno può accusare la storia di non avere il senso dell’ironia. Sessantatre anni fa, nel Luglio del 1947, una nave passeggeri diretta in Palestina e chiamata The Exodus venne fermata e abbordata dalla Marina inglese.
La nave era piena di sopravvissuti dell’Olocausto decisi a rifarsi una vita, nella Palestina controllata dagli inglesi, ma privi di permessi di immigrazione legale. Di fronte al terrorismo delle organizzazioni sioniste, alle ondate migratorie illegali degli ebrei che fuggivano dai campi profughi dell’Europa postbellica, e alla resistenza degli arabi palestinesi contro un movimento sionista sempre più potente e aggressivo, incoraggiato dalla propria crescita numerica, l’Inghilterra era decisa a fermare la nave.
Di conseguenza, quando la Marina inglese abbordò la nave venti miglia a largo di Haifa ne seguì una vera battaglia. Tre degli immigrati vennero uccisi e dozzine rimasero feriti mentre le truppe inglesi gettarono i passeggeri in tre diverse prigioni navali. Da lì questi sopravvissuti dell’Olocausto vennero rimandati in Germania e di nuovo relegati nei campi. Il mondo inorridì; un giornale americano scrisse il titolo: “Back to the Reich” [Riportati nel Reich]. I delegati della UN Special Commission on Palestine che videro quanto accadde furono similmente scioccati; il delegato iugoslavo disse che quello che era accaduto all’Exodus “è la migliore prova possibile che abbiamo per permettere che gli ebrei vadano in Palestina”.
Da allora il destino dell’Exodus è diventato leggenda: Leon Uris lo utilizzò come base per il suo omonimo bestseller del 1958; nel 1960 ne venne tratto un film di successo che aveva come protagonista Paul Newman. In realtà, The Exodus – sia il libro che il film – dipingeva il movimento sionista e i primordi del suo stato in modo eccessivamente favorevole, forse per aiutare gli Stati Uniti e l’Europa a superare le proprie colpe - per l’antisemitismo storico e l’inazione durante l’Olocausto - sostenendo Israele. L’ex Ministro degli Esteri israeliano Abba Eban indicò un legame diretto tra la storia dell’Exodus e la fine del mandato inglese in Palestina. In modo eloquente, un documentario del 1996 che celebrava questa vicenda è intitolato: Exodus 1947: The Ship That Launched a Nation [Exodus 1947. la nave che lanciò una nazione].
Oggi, un’altra piccola flottiglia di navi si sta dirigendo in Palestina. Stipata di aiuti umanitari e di circa 600 pacifisti e operatori dei diritti umani di provenienza internazionale, è salpata per Gaza.
Gaza, che è diventata sinonimo di violenza e povertà, ospita un milione e mezzo di palestinesi spossessati e imprigionati. Sotto controllo israeliano dal 1967, Gaza ha visto di tutto e ha subìto di tutto. Ma gli eventi degli ultimi due anni non hanno precedenti. Sottoposta a blocco dal 2007, bombardata da un attacco di tre settimane definito “guerra”, la sua gente da allora sopravvive a malapena. Come Dov Weissglas, consigliere dell’allora Primo Ministro israeliano Ehud Olmert, spiegò nel 2006, i palestinesi dovevano essere “messi a dieta”. Oggi, a Gaza, la maggior parte dei beni essenziali per la vita quotidiana sono proibiti – o per “ragioni di sicurezza” o perché considerati “beni di lusso”: il cemento è proibito, le matite sono proibite, la carta è proibita, i giocattoli sono proibiti, le medicine e il cibo sottoposti a restrizioni.
Naturalmente, potete essere d’accordo con tutto ciò e dire che la colpa è dell’organizzazione “terrorista” Hamas. Potete dire che anche se tutto ciò è proibito dal diritto internazionale si tratta di misure necessarie alla sicurezza di Israele. O potete chiedere: in che senso proibire i giocattoli vuol dire combattere il terrorismo?
Naturalmente, potete rimanere sconvolti, come Mary Robinson dopo la guerra [del 2008-9]: “La loro intera civiltà è stata distrutta, non esagero…è quasi incredibile che il mondo non se ne curi mentre accade tutto ciò”. O potete credere al Ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman: “A Gaza non c’è una crisi umanitaria. Nonostante i crimini di guerra di Hamas contro i cittadini israeliani…Israele continua a rispondere nel modo più umano possibile”.
A prescindere da quelli cui volete credere, è probabile che questo fine settimana vediate un altro esempio dell’umanità di Israele. Si dice che un quarto della Marina israeliana sia stata mobilitata per fare in modo che la flottiglia non passi. La stampa israeliana riferisce che proprio come gli inglesi tanti anni fa, sono pronti dei piani per fermare la flottiglia umanitaria a venti miglia dalla costa e trasferirne i passeggeri in campi di detenzione o prigioni all’interno di Israele prima di deportarli. Per il ministro degli esteri israeliano non si tratta di un convoglio di aiuti ma di una “provocazione spudorata” e di “propaganda violenta”. Il che è davvero strano visto che il convoglio, se non gli verrà impedito, non andrà nelle vicinanze di Israele.
Tuttavia, anche se Israele fermasse il convoglio dovrebbe sapere che la sua posizione – la pretesa di tenere sotto assedio un intero popolo – è insostenibile. Al tempo dell’affare Exodus il futuro Primo Ministro israeliano Golda Meir dichiarò: “All’Inghilterra noi diciamo: è una grande illusione credere che siamo deboli. Sappia l’Inghilterra – con la sua potente flotta, e i suoi molti cannoni e aerei – che questo popolo non è debole, e che la sua forza tornerà utile a qualcuno”. Sostituite l’Inghilterra con Israele e lo stesso può dirsi di ciò che accade oggi.
Richard Irvine insegna in un corso alla Queen’s University di Belfast intitolato “The Battle for Palestine” che esplora l’intera storia del conflitto. Irvine ha anche lavorato come volontario nei campi profughi palestinesi in Libano e ha preso parte alla piantumazione degli olivi e alla raccolta delle olive in Cisgiordania.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://electronicintifada.net/v2/article11302.shtml
Fonte: http://andreacarancini.blogspot.com/
3 giugno 2010
La flottiglia di Gaza e le ironie della storia
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