4 giugno 2010

Verso la scomparsa dei popoli papua in Indonesia?

LE DISCRIMINAZIONI AUMENTANO
Il presidente Susilo Bambang Yudhoyono, rieletto con entusiasmo nel giugno del 2009, ha mandato in soffitta la dittatura, ma la sua attitudine nei confronti delle minoranze resta ancorata alle antiche pratiche, specialmente in Papuasia (o Nuova Guinea occidentale): divisione delle popolazioni, frazionamento del territorio, saccheggio...


dal nostro inviato speciale PHILIPPE PATAUD CÉLÉRIER *

«Che sia Sby o un altro, sa... I giochi son fatti da tempo» E, dopo un breve silenzio: «Per noi, rimane sempre un generale. Un generale bang bang!» Linus s'è girato verso il suo amico Agus, sulla trentina, papuaso come lui. Per loro, come per molti altri, la rielezione alla presidenza della Repubblica indonesiana, l'8 giugno 2009, di Susilo Bambang Yudhoyono - Sby - era scontata. Entrambi sono originari di Jayapura, capoluogo di provincia della Papuasia, parte occidentale dell'isola di Nuova-Guinea. Ben presto diventeranno funzionari: insieme a una quindicina di altri colleghi, principalmente giavanesi, sono in formazione a Surabaya, città tentacolare della provincia di Giava-Est. Dal gennaio 2002, la Papuasia gode di uno statuto autonomo, ma molte disposizioni legislative sono rimaste lettera morta.

«In mancanza dell'indipendenza - commenta Agus - abbiamo un'autonomia speciale, talmente speciale che tutti diffidano. Io so solo che finalmente troverò un impiego in un nuovo distretto, nel sud della Papuasia.

Per i papua indipendentisti, io sono un traditore. Per la maggioranza dei nostri formatori, giavanesi, sono una scimmia che si cerca di far scendere dall'albero. Io vorrei solo mantenere la mia famiglia.» S'interrompe. Un gruppo esce dall'hotel. L'argomento è spinoso...

Qualche mese fa, alcuni papua armati di arco e frecce hanno attaccato un commissariato alla periferia di Jayapura. La polizia ha aperto il fuoco, uccidendo una persona. La stampa indonesiana ha accusato i movimenti separatisti papua di voler sabotare le elezioni libere in un paese oggi democratico. «Libere? Democratico? E perché allora Papua non smette mai di contare i morti?», s'inalbera Agus.

Nel 1998, la caduta del generale-dittatore Suharto, dopo trent'anni di regno assoluto, aveva suscitato molte speranze. L'autoritarismo accentratore che aveva contenuto, manu militari, l'eterogeneità razziale, etnica e religiosa del più grande arcipelago del mondo - cinquemila chilometri di lunghezza, 17mila isole di cui 6mila abitate - si disgrega da Aceh alla Papuasia: dappertutto agiscono forze centrifughe. Alla periferia di Giakarta, la capitale, sono molti i gruppi etnici che vogliono recuperare la loro indipendenza, insieme a un'identità soffocata nella morsa di una cultura giavanese condivisa dalla maggior parte dei duecentoquaranta milioni di indonesiani, al 90% musulmani.

I popoli della Nuova-Guinea occidentale (1), che non hanno accettato né la loro annessione da parte dell'Indonesia nel 1962, né il loro congiungimento ufficiale all'arcipelago, nel '69, dopo un referendum-farsa (2), avranno diritto solo a uno statuto autonomo speciale. «Lassismo», denunciano allora i nazionalisti indonesiani. Fanno notare che numerose leggi hanno già emendato la Costituzione per soddisfare le rivendicazioni che sorgono dappertutto nell'arcipelago: riconoscimento delle differenze regionali, creazione di regioni autonome, decentralizzazione del potere fiscale... innovazioni giuridiche che, ai loro occhi, minacciano le fondamenta dello stato-nazione.

Secondo loro, sarebbe piuttosto il momento di consolidare l'unità, e non quello di chiedere un nuovo statuto autonomo che, oltre a fornire alla Papuasia un sicuro trampolino di lancio verso l'indipendenza, susciterebbe nuove fiammate separatiste..

Al lato opposto dello scacchiare politico, il Presidio del consiglio di Papuasia (Presidio Dewan Papua, Pdp), principale formazione indipendentista, respinge fin dall'inizio la legge sull'autonomia, promulgata il 21 novembre 2001 dalla presidente di allora, Megawati Sukarnoputri.

Quindici giorni dopo, nei sobborghi di Jayapura viene ritrovato il corpo senza vita del presidente carismatico del Pdp, Theys Eluay.

La Papuasia è a un passo dall'esplosione. L'omicidio fa poco scalpore nella società indonesiana, però dà soddisfazione a quelli che considerano le azioni indipendentiste una minaccia per l'unità nazionale. «Il nazionalismo è molto forte. Gli indonesiani vedono ogni tentativo di divisione del loro paese come un attacco al'integrità dello stato, del territorio e del concetto nazionale di Indonesia. Tutto il discorso politico, l'educazione e la reinterpretazione della storia indonesiana sostengono queste idee. Inoltre, Giakarta ha ottenuto il riconoscimento internazionale dell'integrazione della Papuasia all'Indonesia - dunque una legittimità sancita dal diritto internazionale», sostiene Jacques Bertrand, professore di scienze politiche all'università di Toronto (Canada) (3).

Mentre lo stato mobilita i corpi speciali dell'esercito (il sinistro comando Kopassus) per trovare gli assassini di Eluay, Megawati, consapevole che in quel periodo di disordini l'elettorato potrebbe rivolgersi ai leader più radicali, rispolvera la legge sull'autonomia. In una regione in piena effervescenza, promulga un decreto (4) che divide la Nuova-Guinea occidentale in tre province. Un'abile mossa. «L'identità papua è giovane e debole a confronto delle identità più locali [da un milione cinquecentomila a due milioni di papua per trecentodieci gruppi etnolinguistici]. Aprendo la strada alle divisioni provinciali, il governo toglie ai papua la possibilità di parlare con un'unica voce in un governo autonomo (e ricco) che potrebbe sostenere le loro rivendicazioni in modo più coerente - continua il professor Bertrand.

Il governo indonesiano sfrutta, di fatto, la tendenza dei papua alla divisione.» Per una parte dell'élite locale che sogna di migliorare la propria posizione sociale, di aumentare le sue ricchezze e il prestigio, la creazione di nuove entità territoriali è una fortuna insperata.

«Più ci sono province e distretti, più aumentano i posti di governatore e di bupati [capi distretto] da coprire, e le risorse stanziate dal potere centrale», riassume il ricercatore Richard Chauvel, dell'università Victoria, a Melbourne (Australia).

Questa politica perversa legittima le divisioni: il nuovo slancio democratico permette di eleggere a suffragio universale i rappresentanti locali (province e distretti) di ognuna delle trentatré province che compongono oggi l'arcipelago indonesiano. «Le elezioni creano in Papuasia una nuova sfera di competizione, spesso deleteria, tra responsabili papua - commenta un professore dell'università Cenderawasih di Jayapura. L'esercito dà man forte al candidato che gli promette miglioramenti. La competizione è dunque altrettanto accesa tra fazioni militari e/o poliziesche.» Alla fine, verranno create solo due province su tre, Papuasia e Papuasia occidentale.

Attirate dal trasferimento fiscale di 24 000 miliardi di rupie nel 2009 (circa 1,7 miliardi di euro) erogati dal potere centrale alle due province, molte lobby incitano perciò lo stato a moltiplicare le divisioni regionali, e di conseguenza le strutture amministrative portatrici di impieghi riservati ai privilegiati: gli autoctoni che hanno sostituito i migranti di origine giavanese dopo la legge sull'autonomia.

«La frustrazione cambia campo - rileva un osservatore - ma la popolazione locale continua a pagare l'incompetenza e la corruzione dei suoi funzionari.» A Giakarta, si fa notare che questo frazionamento territoriale, accompagnato da importanti flussi finanziari, è una garanzia di serietà e uno strumento per rompere l'isolamento della regione, per democratizzare l'assistenza sanitaria e l'educazione in una regione dai rilievi impervi.

«Questa territorializzazione - ribatte un militante papuaso - porta soprattutto la creazione di amministrazioni pletoriche, di posti di polizia o di scuole che promuovono solo il bahasa Indonesia [la lingua ufficiale della Repubblica d'Indonesia insegnata dai migranti, principalmente di origine giavanese.» Questi ultimi rappresentano già il 48 % dei due milioni quattrocentomila che - secondo le stime più attendibili - vivono in Papuasia.

Per la maggioranza degli autoctoni, si tratta di una «giavanizzazione» pianificata da tempo dal governo. Alle motivazioni politiche si aggiunge una realtà economica che lascia poche speranze quanto a una eventuale indipendenza post-referendum, come avvenne per Timor est, pienamente indipendente dal 2002. La Papuasia trabocca di risorse naturali: oro, rame, uranio, nickel, olio, gas naturale, foreste (un quarto della superficie silvestre dell'Indonesia). Sui suoi quarantadue milioni di ettari di foresta tropicale, più della metà è stata ritenuta sfruttabile da Giakarta, senza contare altri nove milioni di ettari supplementari adibiti a sviluppo agricolo, tra cui quello della palma da olio. Così, dopo aver devastato le isole di Sumatra e di Kalimantan, la produzione di olio di palma, molto richiesta dall'industria groalimentare e per gli agrocarburanti, invade la Papuasia, che, con la Malesia, rappresenta l' 85 % della produzione mondiale..

Sinar Mas, il più grosso raccoglitore indonesiano, ha appena acquistato quasi tre milioni di ettari. La compagnia mineraria Freeport-McMoRan (Phoenix), rimane il più importante investitore straniero in Indonesia, e anche il più contestato per i suoi metodi di sfruttamento. Parte delle sue entrate, che nel 2008 hanno sfiorato i 18 miliardi di dollari, si devono all'espulsione delle popolazioni papua, gli Amungme, costrette a barattare le alte terre fredde della regione di Tembagapura con gli acquitrini costieri delle basse terre paludose di Timika, più a sud. Un disastro ecologico, umano e sociale denunciato anche da Bp Indonesia - che dal 2009, esporta per cinquecento chilometri, a partire dalla baia di Bintuni, i suoi primi milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto, destinato soprattutto alla Cina. Un giacimento colossale, il terzo in Indonesia...

La maggior parte dei papua non gode di queste ricchezze. Il livello di povertà è due volte più elevato della media nazionale, e il tasso di mortalità infantile, secondo le regioni, tra due e sei volte superiore.

Quello dell'aids, quaranta volte superiore, si diffonde tanto più facilmente in quanto l'esercito fa poca attenzione allo stato di salute delle prostitute di cui è grande procacciatore. L'esercito, lontano dal potere centrale, geograficamente e finanziariamente (non più del 30% delle entrate proverrebbe dallo stato), l'esercito prosegue le sue attività, pronto a seminare disordine e morte pur di rafforzare la propria legittimità e garantirsi guadagni: prostituzione, ma anche gioco, traffico d'armi, di alcol, disboscamento illegale, collusione e racket in tutti i campi (costruzione di strade, trasporti, sicurezza ...). Solo che, su un raggio d'azione che si restringe - indipendenza di Timor est, pacificazione delle Molucche, delle Celebi, fine della guerra civile a Aceh - , la concorrenza tra unità militari per appropriarsi dei contratti più vantaggiosi, in Papuasia, si fa dura.

Obbligato a trovare gran parte delle proprie risorse, l'esercito si comporta come un vero predatore. Tra il 1963 e l'83, secondo stime ufficiali, sarebbero stati uccisi cento cinquantamila papua; cifre dette e ridette nel corso di quarant'anni di continue operazioni militari.Ogni mese, organizzazioni come Human Rights Watch o Survival International registravano nuove violazioni: persecuzioni, stupri, torture, omicidi, popolazioni deportate, abitazioni distrutte, bestiame abbattuto (5)... Di fronte a una simile lista inesauribile molti sostengono che è in corso un genocidio. Probabilmente, da qui al 2015, ci saranno più migranti che papua.

Anche se questo sconvolgimento demografico non costituisce di per sé un genocidio, è comunque un forte indice del processo di decomposizione della società papua. Si contano già oltre ventimila deportati dal 2001, e tredici mila cinque cento rifugiati vivono in esilio, dall'altro lato della frontiera, in Papua-Nuova-Guinea, il paese fratello indipendente.

Lo stato indonesiano ha intenzione di distruggere i popoli papua?
Consentire alla stampa internazionale, alle organizzazioni non governative, ai difensori dei diritti umani, di entrare nella regione, costuirebbe una prima smentita. Riabilitare la giustizia, una seconda. Che lo stato resti inattivo per impotenza o per calcolo, rimane comunque un dato di fatto: la democrazia indonesiana si interrompe in Papuasia.

E quando si formano zone senza-diritto, nessuno sa fin dove arriveranno.
Gli indonesiani, e non più solo i papua, rischiano di impararlo a proprie spese.

note:
* Giornalista.
(1) La Nuova Guinea occidentale, o Irian Jaya, o Papuasia, come viene ormai chiamata, riunisce due province: la Papuasia occidentale, che comprende la parte estrema occidentale della Nuova Guinea (la penisola detta «Vogelkop» [«testa di uccello»], e le sue isole circostanti, ossia nove distretti), e la Papuasia, a cui viene attribuito il territorio rimanente (cioè 27 distretti).
(2) Si legga in particolare « Les Papous dépossédés de l'Irian Jaya», Le Monde diplomatique, ottobre 1996 e Damien Faure, «La guerriglia dimenticata di West Papua», Le Monde diplomatique/il manifesto settembre 2002.
(3) Jacques Bertrand, «Papuan and Indonesian nationalisms: Can they be reconciled?», Refugies Studies Centre, université d'Oxford, 2007.
(4) Decreto numero 1/2003.
(5) Cfr., per esempio, Human Rights Watch, «"What did I do wrong?" Papuans in Merauke face abuses by Indonesian Special Forces», giugno 2009, www.hrw.org (Traduzione di E. G.)
 
Fonte: http://www.monde-diplomatique.it/ (febbraio 2010)

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