4 giugno 2010

E se si chiudesse la Borsa...

È stato poco più di un anno fa: i governi sono corsi in aiuto delle banche a spese dei contribuenti. Missione compiuta. Ma a che prezzo? L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) valuta in 11.400 miliardi di dollari le somme mobilitate per questo salvataggio. Il che vuol dire 1.676 dollari per ogni essere umano... Ma la finanza non è una questione che riguardi solo i banchieri. Riguarda anche gli azionisti. Potrebbero non gradire una proposta: chiudere la Borsa.

di FRÉDÉRIC LORDON *

C'è mancato poco che il grande spettacolo della crisi di questi due ultimi anni ce lo facesse dimenticare: là dove la finanza «di mercato»* (gli asterischi rimandano al glossario pag.9), definizione un po' idiota, ma insomma ce ne vorrà pure una per fare la differenza, sembra attivarsi in un universo chiuso, lontano da tutto e in particolare dal resto dell'economia, la finanza azionario*, quella dei proprietari dei mezzi di produzione, si attesta per tutto l'anno sulle spalle delle imprese - e, come sempre, in ultima analisi, dei salariati.

C'è voluta la «moda del suicidio», così delicatamente definita da Didier Lombard, presidente-direttore generale (Pdg) di France Télécom, per avere l'occasione, per altro assai poco sfruttata dal dibattito pubblico, di ricordarsi di quella calamità che è la finanza azionario le cui imposizioni di redditività finanziaria sono implacabilmente convertite dalle società in riduzione forsennata dei costi salariali, distruzione metodica di ogni possibilità di rivendicazione collettiva, intensificazione spossante della produttività e degrado costante delle condizioni materiali, corporali e psicologiche del lavoro.

Contro ogni tentativo di smentita, di cui si avvertono fin qui gli accenti scandalizzati, bisogna ribadire il legame di causa ed effetto che conduce dal potere azionario, le cui stravaganti pretese non trovano più alcun ostacolo nelle presenti strutture del capitalismo, a tutte le forme, talvolta le più estreme, di desolazione salariale.

E se le mediazioni che separano i due capi della catena fanno spesso perdere di vista la catena stessa, nonché quello che le sofferenze a una delle estremità deve alle pressioni esercitate dall'altra parte, e anche se proprio questa distanza resta la migliore risorsa della smentita, o degli opportuni distinguo tipici del dibattito mediatico, niente può cancellare completamente l'unità di una «causalità di sistema» facilmente verificabile con un'analisi attenta (1).

Se perciò la ristrutturazione totale del gioco della finanza «di mercato», reclamata dai governi con tanta più marziale veemenza quanto meno hanno intenzione di farla, occupa il dibattito pubblico da un anno, bisognerebbe almeno non dimenticare che anche la finanza azionario è in attesa del suo «effetto boomerang»... Da questo punto di vista ci vuole il Pdg di Libération, Laurent Joffrin, in cui si coniugano pigrizia intellettuale e rifiuto di qualsiasi cosa possa contrariarlo, per sostenere che non ci sono idee a sinistra (2) - forse in effetti non in Libération né nel Partito socialista (ma si è detto: a sinistra).

Non è dal vuoto dello sguardo di Laurent Joffrin, che si potrà concludere che non c'è niente. Lo Slam (Shareholder Limited Authorized Margin o limite autorizzato per la redditività azionaria) è un'idea (3).

L'abolizione della quotazione in continuo, e la sua sostituzione con un fixing mensile o plurimestrale, è un'altra (4). Arriva però il momento in cui si guarda alla questione in modo diverso: e se si chiudesse la Borsa?

Dalle bonarie cronache del compianto Jean-Pierre Gaillard, a lungo giornalista specializzato sulla Borsa per France Info, alla comparsa dei canali borsistici, passando per l'incessante «Cac 40-Dow Jones-Nikkei», alla fine la Borsa lascerà il campo delle istituzioni sociali per diventare quasi un elemento della natura - qualcosa la cui soppressione è semplicemente impensabile. È vero che due decenni e mezzo di martellamento continuo hanno contribuito a questa specie di naturalizzazione, in particolare spiegando che un'economia «moderna» non potrebbe concepire il proprio finanziamento se non con i mercati, e tra questi i mercati azionari* (la Borsa nel senso stretto del termine). Certo, per continuare a dipanarsi, questo discorso è costretto a tacere sull'insieme delle rovine collegate all'esercizio del potere azionario, mentre basterebbe il semplice confronto tra i suoi supposti benefici economici e i suoi reali costi sociali per fare apparire sotto tutt'altra luce il bilancio dell'istituzione «Borsa». Peraltro la divisione tra benefici economici e costi sociali non coglie una buona parte del fenomeno, perché la tendenza alla compressione salariale indefinita, derivante dal vincolo di redditività azionario provoca effetti macroeconomici. Il sotto-consumo cronico che ne risulta ha spinto i geniali strateghi della finanza a suggerire alle famiglie di «integrare il reddito» con il credito, diventato la stampella permanente di una domanda mancante - il seguito è noto. Evidentemente i bilanci sono sempre più facili con una sola colonna invece di due, specie, direbbe l'umorista Pierre Dac, se si toglie quella sgradita.

Ma se poi viene meno anche quella «buona», allora cosa resta dell'insieme?

Ora, affermare che le promesse positive della Borsa sono dubbie è ancora poco. Si vuol dire che in sua assenza niente finanziamento economico, niente fondi propri per imprese a quel punto votate all'insolvibilità, ancor meno sviluppo delle start-up messaggere di rivoluzioni tecnologiche?

Andiamo a vedere, con ordine e metodicamente.

Gli investitori pompavano, pompavano! Sulla carta, il piano d'insieme aveva una sua logica. Alcuni (i risparmiatori) hanno risorse finanziarie in eccesso e in cerca di investimenti, altri (le imprese) hanno bisogno di capitali: la Borsa è quella forma istituzionale idonea, che sarebbe in grado di mettere in contatto tutta questa brava gente per realizzare un incontro mutuamente vantaggioso delle capacità di finanziamento degli uni e dei bisogni degli altri.

Addirittura farebbe anche di più: apportando risorse permanenti (diversamente dall'indebitamento, i capitali propri, versati per l'emissione di azioni, non sono rimborsabili), stabilizzerebbe il finanziamento e ne minimizzerebbe il costo. Patatrac: niente di tutto questo funziona.

La Borsa finanzia le imprese? Al punto in cui siamo, sono piuttosto le imprese che finanziano la Borsa! Per capire questo capovolgimento inatteso, bisogna tener presente che i flussi finanziari tra imprese e «investitori» sono a doppio senso e che se i secondi sottoscrivono le emissioni delle prime, non mancano, simmetricamente, di pompare regolarmente dividendi (in quantità crescente) e soprattutto buy-back*, «innovazione» caratteristica del capitalismo azionario per la quale le imprese sono spinte a ricomprare le proprie azioni al fine di aumentarne meccanicamente il profitto per azione e, con ciò, spingere il corso della borsa (dunque la plusvalenza degli investitori) verso l'alto. La coerenza nell'incoerenza del capitale azionario raggiunge del resto alte vette, dal momento che, imponendo norme di redditività finanziaria esorbitanti, costringe ad abbandonare molti progetti industriali, incapaci di «superare la sbarra», lasciando le imprese con risorse finanziarie inutilizzate... prontamente denunciate come «capitale inattivo», con preghiera di restituirlo con sollecitudine ai «legittimi proprietari», gli azionisti - «visto che non sanno servirsene, che ce lo rendano!». Ormai il flusso che esce dalle imprese verso gli investitori supera quello che va in senso contrario... e che dava senso e legittimità all'istituzione borsistica. I capitali prelevati dalle imprese sono diventati inferiori ai volumi di denaro pompati dagli azionisti, e il contributo netto dei mercati azionari al finanziamento dell'economia è diventato negativo (quasi nullo in Francia, ma abissalmente negativo negli Stati uniti, il modello di tutti noi [5]).

C'è di che rimanere sconcertati di fronte a un fatto simile quando, contemporaneamente, le masse finanziarie investite sui mercati borsistici continuano a crescere. Il paradosso è di fatto abbastanza semplice da chiarire: in mancanza di nuove emissioni di azioni capaci di assorbirle, queste masse non fanno che aumentare l'attività speculativa sui mercati detti «secondari»* (i mercati di scambio delle azioni già esistenti).

Per cui, il loro afflusso costante ha l'effetto, non di finanziare progetti industriali nuovi, ma di alimentare l'inflazione degli attivi finanziari già in circolazione. I corsi salgono e la Borsa va molto bene, grazie, ma il finanziamento dell'economia reale le è sempre più estraneo: il gioco autoreferenziale della speculazione è sufficiente a fare la sua felicità e, infatti, i volumi di attività nei mercati secondari schiacciano letteralmente quelli dei mercati primari* (i mercati di emissione). Che la Borsa come istituzione di finanziamento, in questo differenziata dalla Borsa come istituzione di speculazione, sia diventata inutile, potrebbero spiegarlo meglio le imprese. Il problema semplicemente non si pone per le piccole e medie... che non sono quotate, ma di cui è bene comunque ricordare che sono la schiacciante maggioranza della produzione e dell'occupazione - va ripetuto perché sia ben chiaro: la schiacciante maggioranza della produzione e dell'occupazione fa tranquillamente a meno della Borsa. Stupisce più ancora che anche le grandi imprese vi facciano poco ricorso - salvo quando decidono di divertirsi col gioco delle fusioni e delle offerte pubbliche di acquisto (Opa). Perché quando si tratta di trovare finanziamenti, il paradosso vuole che i fiori all'occhiello del Cac 40 e del Dow Jones vadano molto spesso a cercarne altrove: nei mercati obbligazionari, oppure, con un'inconfessabile persistenza nell'arcaismo... in banca! Una gustosa ironia vuole che ciò sia dovuto non tanto a reticenza filosofica quanto all'ennesimo effetto del vincolo azionario stesso, che vede in ogni nuova emissione l'inconveniente della diluizione, dunque della riduzione del dividendo per azione.

Insomma, il trionfo del potere azionario consiste nel dissuadere le imprese che più potrebbero permetterselo dall'idea di finanziarsi attraverso la Borsa! Ma almeno, ciò che resta di finanziamento lordo offerto dalla Borsa si realizza per le imprese al costo vantaggioso promesso da tutti i discorsi sulla deregolamentazione? Il costo del debito si conosce con certezza: il tasso d'interesse da pagare ogni anno. Il «costo del capitale» (nel caso in discussione, il costo dei fondi propri) è una faccenda più complicata. Per definizione i capitali propri (prelevati con emissioni di azioni) non portano un tasso di remunerazione predefinito come invece il debito. Ciò non significa che non costino nulla! Ma allora quanto? È sintomatico che la teoria finanziaria continui a interessarsi al «costo del capitale»..., ma esclusivamente dal punto di vista dell'azionista (leggere il riquadro)! Il che non dice niente di quanto costa concretamente all'impresa finanziarsi emettendo azioni piuttosto che obbligazioni*, od optando invece per la banca - ed è questa una questione di cui la teoria finanziaria si disinteressa quasi completamente, rivelando così i suoi punti di vista impliciti (per non dire: da che parte sta). Altre promesse, altre minacce Ora, il costo per l'impresa dipende da tre elementi: i dividendi e i buy-back sono i primi due, ai quali bisogna aggiungere anche i costi di opportunità legati a progetti d'investimento scartati per insufficiente redditività, cioè tutti i profitti ai quali l'impresa ha dovuto rinunciare per imposizione azionario... a non investire.

Tutto questo, che è già parecchio, non si traduce però facilmente nella forma di un «tasso» paragonabile al tasso d'interesse, in modo da offrire un confronto punto per punto dei costi delle diverse forme di capitale (fondi propri contro debito). Il fatto che il debito sia rimborsabile e non così i capitali propri, è una prima differenza problematica; all'inverso, il dividendo è pagato per sempre sulle azioni ben oltre la fine del ciclo di vita dell'investimento che esse hanno finanziato; in assemblea le azioni conferiscono un potere (al quale si potrebbe assegnare un valore) che il debito non dà, ecc. In mancanza di un confronto diretto, si può però fare un confronto differenziale, e osservare che uno dei due costi, quello dei fondi propri, ha avuto una crescita esponenziale: i buy-back, un tempo sconosciuti, si sono sviluppati in percentuali notevoli; quanto ai dividendi se ne può misurare la crescita attraverso la quota che ormai occupano nel prodotto interno lordo, dove sono passati dal 3,2% all'8,7% dal 1982 al 2007, e questo, è bene ripeterlo, per il fatto stesso dell'esercizio del potere azionario, in cui favore è stata fatta la deregolamentazione borsistica... fidando sul ribasso del costo del finanziamento alle imprese! In sintesi: contributo netto negativo, e contributo lordo costosissimo là dove era stato promesso a costi limitati... Ci si chiede cosa permetta alla Borsa di continuare a esistere - a parte gli interessi particolari del capitale finanziario, indubbiamente molto potenti.


La risposta è: altre minacce e altre promesse.

La minaccia agita lo spettro di un'«economia senza fondi propri».

A prima vista, una minaccia seria, specialmente in un periodo in cui si avverte, non senza ragione, la crescita fuori controllo del debito privato. Rifiutare alle imprese i vantaggi della Borsa non rischierebbe forse di rinviarle ai mercati obbligazionari o al credito bancario, cioè a un debito ancora maggiore - e con tutto il potere ai banchieri, una razza che la crisi ci ha reso così simpatica (6)?

Ma un'economia senza Borsa non è affatto un'economia senza fondi propri. Troppo occupata ad autoincensarsi, la Borsa ha finito col dimenticare che l'essenziale dei fondi propri non viene da lei... ma dalle imprese stesse, che li ricavano semplicemente dai loro profitti, trasformati in capitale grazie all'operazione che i contabili chiamano «riporto a nuovo»: ogni anno il flusso di profitto prodotto dall'impresa aumenta lo stock di capitale iscritto in bilancio... almeno fino a quando non viene ceduto agli azionisti sotto forma di dividendi.

Si dirà tuttavia che l'apporto di fondi propri esterni (cioè quelli degli azionisti) riveste un'importanza particolare proprio quando l'impresa va male e, da sola, non produce più abbastanza fondi propri interni per il profitto e il «riporto a nuovo». Del resto, il salvataggio di un'impresa in difficoltà non è forse l'estrema virtù dell'intervento azionario, là dove solo provvidenziali immissioni di capitali propri possono sopperire? Bella idea: ma in genere quelli che intervengono sono concordi nello sborsare il meno possibile e nel condurre il loro affaruccio in modo da intascare le sovvenzioni pubbliche, o da rivenderne alcuni pezzi a trattativa privata, o da sfruttare il regolamento giudiziario per ristrutturare il debito e liberarsi di un po' di dipendenti; più spesso si accordano nel realizzare un festoso cocktail che metta mirabilmente insieme tutti questi ottimi ingredienti - molto poco azionari.

Dato che il cerchio comincia a chiudersi senza pietà e la lista dei supposti benefici è già esaurita, ci si può aspettare che molto presto arriverà il grido disperato: «e le start-up?!». Già, le start-up, la rivoluzione tecnologica in marcia, quella che ci ha regalato Internet (non appena l'esercito abbia posato i tubi e i ricercatori inventato i protocolli...), quella che ben presto ci offrirà dei geni rifatti a nuovo, le start-up, come potremmo farle sbocciare senza la Borsa?

È vero che ci può essere stato qualche piccolo errore di valutazione circa i loro reali vantaggi, ma tutto sarà perdonato quando verranno riscoperti i veri, insostituibili prodigi: promesse di futuri radiosi.

Forse è proprio in questo registro profetico di un domani tecnologico che il discorso borsistico, per altri versi così screditato, trova la sua ultima ridotta - a volte con l'improbabile aiuto di tecnologi di sinistra, ecologisti amici della chimera chiamata «crescita verde», o entusiasti del «capitalismo cognitivo» (alcuni, non tutti...) che ci vedono già sapienti ed emancipati grazie al semplice accumulo di computer connessi in rete. Ora, è vero che il finanziamento delle start-up sembra sfuggire al sistema finanziario classico, e in particolare bancario. La particolarità di queste imprese nascenti sta infatti nella difficoltà di selezione che presentano ai potenziali finanziatori, proprio per il carattere inedito delle loro scommesse tecniche e per la grandissima incertezza che ne deriva, in mancanza di riferimenti passati ai quali paragonarle.

Il discorso è noto: su dieci start-up finanziate, nove saranno buchi spaventosi, ma forse la decima sarà una magnifica pepita che, ben sostenuta fino all'ingresso in Borsa, ce la farà - cioè a dire: arricchirà gli azionisti iniziali, che vengono chiamati, con scarso senso del ridicolo, business angels (gli angeli degli affari), e li conforterà appieno delle perdite subite sulle altre nove.

Questa molto particolare economia della perequazione, propria delle imprese tecnologiche nascenti, renderebbe dunque «indispensabile» l'entrata in Borsa e impossibile il finanziamento tramite credito: il banchiere che fatturasse più o meno lo stesso tasso d'interesse a tutte e dieci perderebbe tutto, interesse e capitale, su nove e guadagnerebbe solo la sua percentuale sulla decima; troppo poco perché l'operazione globale non sia decisamente perdente, e quindi definitivamente abbandonata.

Bisogna riconoscere che l'argomento non manca di senso. Gli manca poco per essere irresistibile. Perché non ci vuole molta immaginazione per pensare a un tasso d'interesse che sia, non più fisso, ma definito come una certa parte dei profitti, eventualmente rivedibile (al rialzo) durante le prime fasi del ciclo di vita dell'impresa. Se si tratta effettivamente di un bingo, lo dimostrerà con i suoi utili, e questa perequazione farà contento il banchiere così come la perequazione borsistica aveva rallegrato il business angel. Scavando un pochino di più, tuttavia, si finirà per scoprire il vero movente dei discorsi generali relativi al finanziamento in capitale delle start-up e degli eroi tecnologici.

L'ingresso in Borsa ha per finalità fondamentale... quella di arricchire a milioni chi ha creato l'impresa e i suoi «angeli» accompagnatori.

Li si pensava mossi dall'idea generale del progresso tecnico, del benessere materiale dell'umanità e dalla passione del fare: molto spesso vogliono solo far fortuna il più rapidamente possibile e godersi un pensionamento molto anticipato - non potrebbe esserci un test più devastante di quello dell'andare a vedere cosa rimane, una volta svanita la promessa di arricchirsi in Borsa, delle valorose truppe degli imprenditori. Delle schiere di agenti pieni di furuncoli della nuova economia, quante avevano solo l'idea fissa di mettere insieme al più presto un piccolo affare da rivendere per fare il colpaccio finanziario?

Si dirà che è l'essenza stessa del capitalismo il fatto che i protagonisti si attivino solo in cambio di qualcosa. Certamente, ma allora, da una parte ci si potrebbe risparmiare la litania imprenditoriale, e dall'altra, una cosa è desiderare di arricchirsi con la propria creazione d'impresa, altra è impegnarsi solo alla condizione (sia pure a livello di speranza) di arricchirsi in modo spropositato, secondo quella che è diventata la condizione implicita ma sine qua non dei creatori di start-up. È vero: non è più la semplice remunerazione del lavoro, o anche il reddito tratto dal profitto d'impresa che può arricchire a questo livello, ma solo e soltanto il terno al lotto borsistico.

Ed è qui la conclusione del discorso sulla Borsa. La Borsa non è un'istituzione per finanziare le imprese - queste non ci vanno più salvo per farsi prendere il loro cash-flow* - ; non è la roccia di un'«economia di fondi propri» - perché per lo più questi provengono da un'altra fonte: dalle imprese stesse - ; non è la provvidenza che salva le start-up dal logorio finanziario - si potrebbe fare benissimo in altro modo - . È una macchina per arricchirsi. Punto. Naturalmente per chi ci riesce la cosa non è trascurabile. Ma per tutti gli altri, la faccenda comincia a pesare.

Smodata cupidigia Così, criticare la Borsa porta inevitabilmente a svelare le vere forze motrici che lo sproloquio imprenditoriale si sforza di nascondere: di fatto, è solo questione di arricchirsi. Non che tutti gli imprenditori siano per principio afflitti da questa smodata cupidigia - chi vuole veramente costruire qualcosa è mosso da altre motivazioni e non ha bisogno del miraggio finanziario per attivarsi (il che non ne fa un santo...). Ma solo la Borsa poteva iniettare nel corpo sociale, o piuttosto nelle sue parti più coinvolte, questo fantasma, divenuto ormai una mentalità, della ricchezza lampo, legittima ricompensa delle elite economiche, interamente dovuta al loro genio creativo e senza la quale è evidente che si vuol togliere il sale della terra, uccidere la vita imprenditoriale, forse anche la vita stessa. Chiudere la Borsa non avrebbe perciò il solo vantaggio di sbarazzarci dei danni azionari con un costo economico tra i più bassi, ma anche quello di estirpare l'idea della ricchezza-flash, diventata riferimento e movente, naturalmente per gente nata bene e in possesso del «merito», servirebbe anche a ricordare che il denaro si guadagna solo nella misura delle possibilità della remunerazione del lavoro, il che, nel caso degli individui che ci interessano, è già la maggior parte delle volte ampiamente sufficiente. La Borsa come specchietto per la ricchezza sarà così l'autrice immaginaria, ma dagli effetti molto concreti, dello slittamento delle regole del successo economico, e non c'è ambizioso la cui strada non l'attraversi - per gli altri, c'è la lotteria, e in ogni caso per nessuno, rapportato a questa norma, c'è il lavoro.

Quindi la Borsa ha la notevole particolarità di concentrare in un unico luogo la nocività economica e quella simbolica, per cui vi si dovrebbe già vedere una buona ragione per pensare di assestarle qualche serio colpo. Non si vuol dire che gli argomenti fin qui portati mettano termine alla discussione sulla chiusura della Borsa, e ci sono sicuramente ancora molte altre obiezioni da confutare per convincersi definitivamente a unire il gesto alla parola. Non si arriva a questa conclusione dunque, si dice solo che quanto meno è tempo di smettere di impedirci di pensarla.

note:
* Economista. Autore di La crise de trop. Reconstruction d'un monde failli, Fayard, Parigi, 2009.
(1) La Crise de trop, capitoli IV e V.
(2) «La sinistra non dice niente sulla crisi finanziaria», tuonava ancora, il 20 settembre 2008, su France Inter.
(3) Leggere «Enfin une mesure contre la démesure de la finance, le Slam!», Le Monde diplomatique, febbraio 2007.
(4) Leggere «Instabilité boursière: le fléau de la cotation en continu», Il blog del «Diplo», 20 gennaio 2010.
(5) Dal 2003 al 2005 il contributo netto dei mercati azionari al finanziamento delle imprese francesi è dell'ordine di pochi miliardi di euro. Negli Stati uniti passa da 40 a 600 miliardi di euro nello stesso periodo! Solo la crisi finanziaria interrompe (provvisoriamente) i massicci movimenti di buy-back (Rapporto annuale dell'Autorità dei mercati finanziari, Parigi, 2007).
(6) Come spesso accade, è l'occasione per rendersi conto che le trasformazioni radicali si fanno meno «per parti» che per «blocchi coerenti». Ricostruire le strutture della finanza richiede di intervenire sui mercati, ma anche sulle strutture bancarie. Cfr. a tal proposito La crise de trop, op. cit., capitolo III.
(Traduzione di G.P.)
 
Fonte: http://www.monde-diplomatique.it/ (febbraio 2010)

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